Quando si parla di necessaria autocritica nel mondo autonomista storico, questo non vuol dire solo mettere sotto accusa qualcuno - anche se è bene che chi ha sbagliato paghi e non sfugga alle sue responsabilità - ma capire in profondità le ragioni che hanno portato allo spezzatino attuale di un autonomismo valdostano frammentato e in parte fuggito dietro a "leghismo" e "grillismo". Ci sono colpe personali e responsabilità collettive, che vanno esaminate con cura e senza facili remissioni dai peccati con due "Pater Noster". Solo un'anamnesi attenta consente la diagnosi delle malattie e le cure conseguenti. Chiudere gli occhi non serve a niente e aspettare non serve egualmente. Così come non serve che a fare pulizia ci debba pensare solo la Magistratura: ci vuole una catarsi dolorosa ma efficace, come un antico rito purificatore che sfoci poi in un lettino di psicanalista, aggiungendo con minuzia un'analisi su quanto nei meccanismi democratici dell'ordinamento valdostano non ha funzionato.
E questa fallibilità ha riguardato il funzionamento di vecchi partiti e movimenti, che hanno abdicato al loro scopo come dimostra in modo efficace la fuga di iscritti, la sfiducia crescente, l'abisso dell'astensionismo e leadership divisive. Lo tsunami politico, ad ottobre, ora incombe anche sulle Province autonome di Trento e Bolzano, certo più nella prima che nella seconda dove la minoranza tedesca pare inossidabile rispetto alla SVP. Scrive e riflette sulla loro autonomia, con echi validi anche per noi, Alberto Faustini, direttore del quotidiano di Trentino e Alto Adige, che evoca anche la recente condanna dell'ex Presidente della Provincia di Bolzano/Bozen di cui ho scritto pochi giorni fa. Ecco Faustini: «Sarò un inguaribile romantico, ma continuo a pensare che l'autonomia sia nobile, importante, fondamentale. Penso che abbia cambiato la storia di questa terra. Ma anche la testa, i modi, gli approcci di chi la abita. Ciò malgrado, anche in un'estenuante campagna elettorale come questa, di autonomia si parla troppo poco. Le dichiarazioni sono mille. Sui social si grida. E c'è chi dà ad una parolaccia scritta nel web, che è il muro della postmodernità, il valore della frase di uno scienziato. Trovo però sbagliato e persino politicamente pericoloso, a maggior ragione in quest'imprevedibile stagione, che si tiri fuori dal cilindro l'autonomia quasi esclusivamente per sparare (in autonomia, ovviamente) ai lupi o per cercare una via (autonoma, ovviamente) per gestire il delicatissimo tema dei vaccini. Ho già scritto che trovo assurda e spropositata l'entità della multa comminata all'ex presidente Durnwalder. Ma trovo normale che qualcuno - non solo fra chi indossa la toga - gli ricordi che un'autonomia solida e matura non deve uscire dall'alveo delle regole generali e non deve dunque aver paura di confrontarsi con lo Stato e con l'Europa sulla questione delle marmotte, dei lupi o degli orsi. Immaginare che un'autonomia florida produca idee o buone pratiche da esportare, ci sta. Che sui predatori ci vogliano regole - e che in alcuni casi si possa anche prevederne la soppressione - è pacifico. Ma cercare di imporle a muso duro al resto del Paese o a Bruxelles è un doppio errore. D'arroganza: perché non è questo il modo per far valere - al di là del merito - le prerogative dell'autonomia. E di superficialità: perché alcune accelerazioni potrebbero non solo renderci ancor più antipatici agli occhi di molti, ma indurrebbero altri a pensare che è questo il nostro modo di usare, esercitare e anche difendere l'autonomia. Confrontarsi apertamente e senza timore con il governo e con l'Europa su molte grandi questioni ed evitare di rincorrere Salvini e le destre sul tema dei vaccini, non indebolisce, ma anzi rafforza un'autonomia che ha bisogno di pensare, come i grandi statisti, alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni». Parole sante anche nella nostra Valle, dove la febbre elettorale non scende mai ed affermazioni di principio e promesse grandi come montagne partoriscono topolini ed alimentano giochi di potere (con riflessi sui "social" che fanno cadere le braccia), che non sono certo da statisti soprattutto perché non affrontano la cruda realtà dei fatti, premessa principale per ogni ricostruzione.