La notizia è ormai stranota: il 42esimo "Comitato del Patrimonio mondiale Unesco", svoltosi nei giorni scorsi a Manama (Bahrein), ha assegnato un altro riconoscimento all'Italia. Si tratta dell'inserimento di Ivrea nella famosa ed in verità inflazionata lista dei patrimoni mondiali come "città industriale del XXesimo secolo". Nessun Paese al mondo ha numeri elevati come l'Italia, anche se scorrendo l'elenco italiano e quello complessivo emergono vive perplessità su certe scelte passate e anche su certe assenze. Ho spinto in passato il riconoscimento, per ora in attesa, delle Comunità walser alpine come "Patrimonio immateriale" e seguo con curiosità la richiesta transfrontaliera di inserimento nella parte materiale del Monte Bianco, conscio però che il marchio serve solo se esiste una progettualità, sennò non è altro che una targa senza ricadute vere e reali vantaggi.
Entusiasmo per la scelta di Ivrea c'è stata al Ministero dei Beni e delle attività culturali, dove il ministro Alberto Bonisoli ha sottolineato che è «un riconoscimento che va a una concezione umanistica del lavoro propria di Adriano Olivetti, nata e sviluppata dal Movimento comunità e qui pienamente portata compimento, in cui il benessere economico, sociale e culturale dei collaboratori è considerato parte integrante del processo produttivo». Qualche piccolo merito ce l'hanno anche i valdostani che in molti hanno lavorato in "Olivetti" ed in parte nelle cascine abbandonate da quei contadini canavesani che entrarono nella grande fabbrica. E' difficile per chi non abiti in bassa Valle d'Aosta capire il legame che esiste fra una parte della Valle ed Ivrea (nota l'espressione non lusinghiera «Ba pè les Ivreie»). "Ivrea la bella", secondo la celebre definizione di Giosuè Carducci nasce - ed è storia - come città contro le scorribande dei "nostri" Salassi, la popolazione celto-ligure che fu sconfitta dai Romani. E questo "cordone ombelicale" non è mai venuto meno nel tempo per l'ovvia continuità territoriale fra Valle d'Aosta e Canavese, dimostrata dal fatto banale di come i ghiacciai forgiarono l'anfiteatro morenico e di come la Dora Baltea ci colleghi, oltre alle vie di comunicazione stradale e ferroviaria. Senza tornare troppo indietro pensiamo, politicamente, al legame stretto all'epoca del "Département de la Doire", con capoluogo Ivrea, con arrabbiatura dei giacobini valdostani che speravano in un'autonomia della Valle d'Aosta o alla Provincia di Aosta, che invertì i termini, "annettendo" alla Valle Ivrea ed un centinaio di Comuni canavesani dal 1927 al 1945, quando la Valle divenne da sola "circoscrizione autonoma". Anche io sono legato ad Ivrea: ho avuto due operazioni nel locale ospedale, ci ho fatto il Liceo classico, ho tanti amici e ci vado spesso. Il mio famoso zio Séverin lì nacque nel 1908, dove mio nonno era stato trasferito quale viceprefetto, spendendosi in favore del castello cittadino. Personalmente amo Ivrea, che pure soffre ancora nello sciagurato "dopo Olivetti", frutto di un tracollo più ragioni finanziarie che industriali, che distrusse la straordinaria avventura dalla macchina da scrivere all'elettronica e poi determinò lo spostamento della telefonia mobile. Per noi valdostani del "sud" della Valle il Canavese è comunque un "buen retiro": si va al ristorante, al cinema, ai laghi, a fare due vasche in via Palestro nel centro città. Si tratta anche di confrontarci, in positivo per noi, fra chi gode di un'Autonomia speciale, che è in primis politica, e di chi invece ha quotidianamente a che fare con il regionalismo ordinario che non è "né carne né pesce". Ora questo label "Unesco", che pure può dire molto o niente a seconda dell'uso che ne è stato fatto nel mondo, accende qualche speranza, pensando tra l'altro all'enorme patrimonio di archeologia industriale. L'importante è che non sia solo una logica museale o peggio di lugubre epitaffio, ma Ivrea faccia del passato una molla per il futuro e di molti spazi da riempire luoghi nuovamente produttivi. In tutta evidenza, anche nel riconoscimento, il ruolo della famiglia Olivetti e di quell'umanista che fu Adriano Olivetti. Rispetto alla Valle d'Aosta, il dato più conosciuto risale al 1936, quando avviò un immaginifico studio preparatorio per un Piano regolatore della Valle d'Aosta (in quegli anni Ivrea faceva parte della "Provincia di Aosta", voluta dal fascismo nel 1927). Certamente Olivetti seguì ancora le vicende valdostane fra Resistenza e dopoguerra per le ricadute sul Canavese. In seguito le sue imprese industriali hanno avuto un'evidente conseguenza sulla Valle con i già citati lavoratori che arrivarono o studiarono nelle scuole aziendali. Ma ci furono poi una serie di aziende targate "Olivetti" che, specie nell'ultima fase, quando Adriano non c'era più (morì nel 1960 a soli 59 anni), vennero in Valle per i vantaggi derivanti dall'installazione di imprese. Con la chiusura dello stabilimento di Arnad la storia è finita, com'era avvenuto per gli stabilimenti che si occupavano di parte dell'indotto. Il punto che più mi interessa è in campo politico, anzitutto con la nascita, nel 1948, del celebre "Movimento di Comunità", per il quale Adriano Olivetti fu eletto deputato nella terza legislatura della Repubblica (1958), la stessa in cui c'era alla Camera mio zio, il già citato Séverin Caveri, di cui mi sfuggono i rapporti personali e politici con l'Ingegnere (qualche lettera esiste nell'archivio della Fondazione). Sicuramente li univa l'attenzione per il modello federalista ed una visione europeista. Su Olivetti ho trovato, tempo fa, trovo interessante un piccolo libro del noto sociologo, Franco Ferrarotti, che gli subentrò quasi subito alla Camera, intitolato "La concreta utopia di Adriano Olivetti". Vorrei dirvi che cosa ho capito:
sbaglia chi riduce Olivetti ad una "fotogenica caricatura"; il suo non è stato un "paternalismo padronale", era semmai un "autentico riformatore"; ha capito la forza della comunità e della "piccola patria", pur nella più vasta comunità umana; la sua spinta politica era basata sull'importanza assai concreta della cultura e non su sogni utopisti; Olivetti ha previsto con fiuto che la grande speculazione finanziaria avrebbe fatto grandi danni; la visione federalista evita l'"angustia municipalistica" o il "paternalismo strapaesano"; si deve ad Olivetti il primo uso del termine "partitocrazia"; capisce fra i primi come il parlamentarismo tradizionale vada in crisi in una società complessa; "tutto il potere alle comunità!" è la risposta al centralismo dello Stato; memore del dramma del nazifascismo e delle dittature comuniste, immagina un insieme di comunità umane basate su valori e non sulla logica "sangue e suolo"; la comunità naturale è il locus originario della libertà; la rivitalizzazione dell'iniziativa dal basso è la condizione essenziale per lo sviluppo della comunità; è interessante il suo cattolicesimo, frutto anche di un padre ebreo e una madre valdese.
Spero che l'Ivrea di domani ricordi questa bella frase dello stesso Olivetti: «La nostra Comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una Comunità né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri che dia a tutte le attività quell'indispensabile coordinamento, quell'efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell'arte che la civiltà dell'uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori».