Ho sempre segnalato un côté comico nei label "Unesco" "Patrimonio dell'Umanità" ed altri ammennicoli simili della stessa, assai discussa, Istituzione internazionale, che deve la sua notorietà più che per le cose fatte per l'abilità di avere inventato un marchio che tutti inseguono (me compreso per la cultura walser), ma privo nella realtà dei fatti di qualunque vantaggio di finanziamento e di reale protezione, se non che vale un oggettivo aumento di quel turismo incuriosito. Per questo concorre il Monte Bianco, anche se a lanciare l'idea sono stati gli ambientalisti, che pensano a chissà quale forma conseguente di protezionismo, che non c'è affatto.
Scriveva, anni fa, Rob Bevan su "Il Giornale dell'Arte": «L'Unesco è sempre più esposta a critiche per la gestione del suo programma di tutela del patrimonio; da parte delle lobby di costruttori e investitori finanziari nel mondo occidentale e da parte dell'associazionismo culturale e ambientalista che la accusa di essere impotente (anche perché senza soldi) di fronte ai conflitti che devastano il patrimonio culturale, dalla Siria a Timbuctù, e accusano di politicizzazione il processo di selezione dei siti». Si aggiunge più avanti questa dichiarazione di John Hurd, presidente del comitato di consulenza dell'"Icomos" e direttore della conservazione per il "Global Heritage Fund" che «ammette che il processo di selezione è ormai troppo politicizzato, e le lobby premono per la classificazione dei siti anche contro il parere degli esperti, spesso con l'unica motivazione di fare soldi grazie al turismo». Scriveva Emanuela Fontana su "Il Giornale": «Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (ad Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi "burocratici" si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai "Sites in danger", i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari. Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla "World list" si sono aggirate tra i venti e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di ventiquattro nomination richiederà 1,3 milioni». Trovo assolutamente esilarante mettere assieme i pezzi del cosiddetto "Patrimonio immateriale". Ci pensavo - vedi che pensieri che mi vengono - mangiando la pizza, visto che l'anno scorso è stata classificata "L'Arte dei pizzaiuoli napoletani". Che a dirla fino in fondo è fatto che onora, ma ormai la pizza - come in jeans - sono fenomeno mondiale e ognuno l'ha fatta propria con varianti mirabolanti. Gli altri riconoscimenti italiani in questa classifica sono i seguenti: 2008 "Opera dei Pupi siciliani" e "Canto a tenore sardo"; 2012 "Saper fare liutario di Cremona"; 2013 "Dieta mediterranea", elemento "transnazionale" (comprendente oltre all'Italia anche Cipro, Croazia, Grecia, Marocco, Spagna e Portogallo); è nello stesso anno "Feste delle Grandi Macchine a Spalla" (la "Festa dei Gigli" di Nola", la "Varia" di Palmi, la "Faradda dei Candelieri" di Sassari, il "Trasporto della Macchina di Santa Rosa" a Viterbo); 2014 "Vite ad alberello" di Pantelleria; 2016 "Falconeria elemento transnazionale" (comprendente oltre all'Italia anche Emirati Arabi, Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Ungheria, Kazakhistan, Repubblica di Corea, Mongolia, Marocco, Pakistan, Portogallo, Qatar, Arabia Saudita, Spagna e Repubblica Araba Siriana). Basta scorrere la cospicua lista mondiale per capire che questo contenitore, come gli altri, è ormai un guazzabuglio senza una vera logica e con il complesso di dimostrare che non si premia solo l'Occidente ma si dà spazia ad ogni dove, nel nome del "politicamente corretto". Per cui spuntano l'"askiyq" dell'Uzbekistan (ci sono due che si prendono in giro su di un tema), l'arte dei cappelli di paglia dell'Ecuador, l'"al'-zi" degli Emirati Arabi che è rappresentazione in poesia, la "kumbh mela" che è un raduno di pellegrini in India. Ma non potevano mancare l'"uilleann piping" con le cornamuse irlandesi, l'equitazione classica a Vienna in Austria, il "savoir-faire" dei mugnai olandesi con mulini a vento e ad acqua, la "séga" (esibizione canora) delle Mauritius che fa il pari con le "punto" (canto improvvisato a Cuba, che ha inserito anche la "rumba"!). Dalle nostre parti - pensa che roba - ci sono gli elvetici "Carnevale di Bâle" e la "Festa dei Vignerons" di Vevey. Rimarchevole la cultura della "birra belga" e sempre in Belgio i "carillons" (musica con le campane). Potrei proseguire a lungo, visitando tutti i Continenti a dimostrazione della varietà poco selettiva, ma mentre scrivo gli ispettori "Unesco" attraversano il mondo per allungare a dismisura le liste sino all'ultimo sgabuzzino, al residuo pizzo o vecchio merletto, alla vetta elevata o alla fossa incassata. Un "Patrimonio", ormai, non si nega a nessuno.