Nella collana "I Delfini" della casa editrice "La Nave di Teseo" è un uscito un libro da non perdere, perché ci illumina su quello straordinario personaggio, che ciascuno di noi conosce fin dall'infanzia e che spesso vediamo o sopportiamo nella vita quotidiana. Il titolo è illuminante: "Breve trattato sul lecchino" di Antimo Cesaro. "Lecchino" è il modo gentile e ironico per il ben più greve ma più suggestivo "leccaculo", idealtipo che lotta e vive in mezzo a noi, e va ringraziato l'autore perché non spara nel mucchio ma ci fornisce grandi proiettori con cui fare luce sulle nostre conoscenze del genere. E l'autore è Antimo Cesaro (Napoli, 1968), che insegna Scienza e filosofia politica e Teoria del linguaggio politico presso l'Università della Campania "Luigi Vanvitelli". E' stato membro del "Consiglio nazionale dei Beni culturali", deputato e sottosegretario di Stato al Ministero dei Beni e delle Attività culturali. In questa attività politica, com'è capitato a me, avrà incontrato varianti meravigliose del modello standard del "leccaculo". Io ne conosco parecchie specie anche nel campionario valdostano (in patois suona "lètsacu").
C'è una citazione straordinaria per la sua forza descrittiva che Cesaro ricorda ed è dello scrittore austriaco Robert Musil: «In sei giorni Dio creò il cielo e la terra. Nel settimo non creò proprio nulla. Si limitò a compiacersi di quanto aveva già fatto. Eppure anche quel giorno ebbe origine un'altra creatura. Il lecchino. Ebbe origine dall'autocompiacimento. "L'Altissimo Signore voglia considerare - se posso permettermi di sottoporre la cosa alla Sua altissima attenzione - che io in realtà non ho consistenza", esordì il lecchino, e il Signore nella Sua infinita benignità considerò». Aggiungere Cesaro: «Ovviamente, non ho dubbi - ma è una mia personalissima ipotesi - sul fatto che l'ottavo giorno il lecchino sia diventato ministro plenipotenziario di Dio... Sembrerebbe emergere, a questo punto, la vetustà di un'arte, talmente risalente da porre in dubbio la certezza su quale sia il più antico mestiere del mondo. E lo scarto tra meretricio e lecchinaggio è non solo temporale, ma anche qualitativo: infatti ci sono cose che una prostituta non fa». Il libro è ricco di riflessioni e perciò letto nella sua interezza. Irresistibili i paralleli fra leccaculo ed animali ed i sarcastici e colti giri attorno al verbo "leccare" fino all'acme: «Infine, nel suo significato estensivo e relazionale - e qui, caro lettore, vengo al "dunque" - leccare può significare adulare in modo basso e servile. In quest'ottica, la natura transitiva del verbo assume anche un'accezione relazionale, presupponendo un nesso tra due o più persone, o diretta ("ha fatto carriera a furia di leccare i superiori") o mediata ("leccare i piedi, le scarpe, gli stivali" e, volgarmente, "il culo a qualcuno"). Un uso traslato del verbo già attestato nell'antica Roma, come dimostrano le auliche locuzioni latine "lambere nates" e "lingere culum". Espressione, quest'ultima, utilizzata da Catullo all'indirizzo del povero e meschino Vezio, un essere talmente abietto agli occhi del poeta veronese da compendiare in sé i peggior difetti dell'homo lingens: inutilmente prolisso ("verbosus"), privo di morale ("fatuus"), sempre pronto ad esibirsi nella sua performance, leccar natiche e sandali: "Contro te, se mai a qualcuno, si può ben dire, Vezio schifoso, ciò che si dice a pomposi logorroici e agli idioti: con codesta tua lingua, al bisogno, potresti leccar culi e ciabatte di cuoio grezzo. Se vuoi farci stramazzare tutti in un sol colpo, Vezio, apri bocca: quel che desideri l'otterrai immediatamente"». Momento sublime dell'avvincente prosa dell'autore è l'assurgere a posti di comando a forza di lingua in quel culo che all'epoca dell'Inquisizione - spiega bene altrove - veniva ascritta al Demonio: «Alla fine, il lecchino non mancherà di conseguire il suo scopo scalando l'intera filiera dei benefici. A furia di ingoiare rospi, sorridere a comando, applaudire e leccare scarpe e altro, con modestia, senza fiatare (come il signor Travèt dell'omonima commedia di Vittorio Bersezio), assumerà via via posizioni di sempre maggiore rilievo nell'ambito di un ministero, di un'università, di un movimento politico, di un ordine professionale: da precario a piccolo burocrate, da funzionario a quadro, da dirigente a direttore generale. Però, proprio al raggiungimento del culmine della carriera si consuma il dramma esistenziale del nostro Campione. Egli, infatti, che vive esclusivamente di luce riflessa, come propaggine o appendice di un capo, giunto all'ultimo stadio del suo meschino progetto di vita, farà - suo malgrado - delle scoperte interessanti e malinconiche. Si renderà conto, per esempio, di non avere più a disposizione scarpe o natiche per le quali valga veramente la pena adoperarsi e ciò lo precipiterà in un orizzonte esistenziale di angoscia e frustrazione. Si accorgerà, nel contempo, ormai privo com'è di un capo cui avvassallarsi, di non avere amici, colleghi o sodali con cui condividere il successo; comprenderà di non avere religione, valori, fede politica in cui credere e per i quali combattere. Realizzerà, così, in cuor suo (lì dove non può fingere di aver sudato successi e vittorie), il senso più autentico del suo essere: una pura nullità». Applausi ed ampi consigli da parte mia di non perdere il libello che è davvero un riassunto fatto di autori e pensiero attorno al leccaculo. Inarrivabile il greco Plutarco, vissuto attorno al primo secolo d.C.: «I pidocchi fuggono via dai moribondi ed abbandonano i cadaveri quando si spegne il sangue che dà loro nutrimento; allo stesso modo, è dato vedere come gli adulatori non s'accostano ad una preda secca e fredda, ma s'attaccano alla gloria e alla potenza e vi prosperano. Poi, appena il vento cambia, si dileguano». Ma concludo con il mio amato Étienne de La Boétie, filosofo francese cinquecentesco, così commentato da Cesaro: «La Boétie si fa critico originalissimo delle dinamiche moderne della politicità, esplorando quelle straordinarie (e per certi versi misteriose, e quindi inspiegabili) forme di acquiescenza e di sottomissione che spingono chi è soggetto a un potere non solo a farsi passivamente complice, ma addirittura protagonista della sua oppressione. Il giovane umanista di Sarlat ci invita pertanto a riflettere sul tema - apparentemente ossimorico - della schiavitù desiderata». Insomma, una parte dell'Italia di oggi.