Guardavo l'altra sera in televisione uno dei tanti film su "Pinocchio" assieme al mio bimbo piccolo. Si trattava della pellicola del 2019 diretta da Matteo Garrone, con Roberto Benigni nei panni di Geppetto. Una versione cinematografica interessante del celebre libro ottocentesco - grande classico della letteratura pedagogica - di Carlo Collodi, che conta 240 traduzioni nel mondo ed è secondo solo a "Il Piccolo Principe" di Antoine de Saint-Exupéry. C'è un bel saggio di Piero Dorfles: "Le palline di zucchero della Fata Turchina. Indagine su Pinocchio" della Garzanti, in cui in un passaggio sintetizza molte cose: «il burattino della prima fuga, del grillicidio, della vendita dell'abbecedario e dell'ingresso al teatro delle marionette, del seppellimento delle monete d'oro, è un bambino sventato che agisce senza riflettere, che non ha altro progetto che assecondare il senso del piacere, "fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo"».
«Le prove non sono fini a se stesse - continua Dorfles - e, anche se Pinocchio non sembra maturare progressivamente, costituiscono i gradini della scala che lo porta alla conclusione della sua parabola burattinesca. "Un turbine di incontri, pericoli, salvataggi, terrori, pentimenti, tutti però concatenati con l'inevitabilità di una catena genetica" (Fruttero, 2002). Il Pinocchio che va al Campo dei miracoli, che dorme all'osteria del Gambero rosso è, più che inconsapevole, irriflessivo. Impossibile che non intuisca che sarà imbrogliato, derubato, impiccato. Semplicemente non ne vuole sapere. "Agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai..." argomenta, e si fa una rodomontesca immagine di lui che intimidisce gli assassini, salvo poi dire che, se questi non si dovessero intimidire, sarà lui a darsela a gambe. Pinocchio agisce imbastendo errori e interpretazioni incongrue perché il "mondo mortale degli adulti" (Manganelli, 1977, p. 78) gli è estraneo, incomprensibile, e questo lo fa essere autisticamente isolato nella sua convinzione di potersela cavare malgrado i rischi obiettivi a cui va incontro. Ma contemporaneamente si sta costruendo una personalità, un carattere, anche se infantile. Se anche trovasse gli assassini per strada, non gli darebbero soggezione: "Andrei loro sul viso gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza»". Mitomane, come ogni bambino che si immagina forte di fronte alle prove della vita, vanta a se stesso un'ipotetica, aggressiva durezza che non si sogna di avere, e una "parlantina fatta sul serio". L'alternarsi di fughe e di penitenziali ritorni è, insieme, il bisogno di essere il ragazzo selvaggio indotto dalla sua indole turbolenta, e la necessità di sottomettersi alla normalità che gli permette di avere di che nutrirsi e di non essere impiccato. Alle fughe seguono i pentimenti, che però non impediscono il ripetersi delle "scapataggini"». Capisco quanto il ravvedimento finale, con la trasformazione in bambino in carne ed ossa, sia stucchevole e Dorfles ricorda che lo stesso Collodi negasse la paternità di quella conclusione, ma credo che la storia del naso che si allunga, in un mondo come l'attuale dove la bugia campeggia, continui ad assumere un valore simbolico enorme. "E ora le quattro monete dove le hai messe? - gli domandò la Fata.- Le ho perdute! - rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in tasca. Appena detta la bugia, il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più. - Ah! ora che mi rammento bene, - replicò il burattino, imbrogliandosi, - le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. [...] E la Fata lo guardava e rideva.- Perché ridete? - gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate. - Rido della bugia che hai detto. - Come mai sapete che ho detto una bugia? - Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito! perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l'appunto è di quelle che hanno il naso lungo". La distinzione, fatta da Carlo Collodi nel suo capolavoro per ragazzi, illuminante per gli adulti, fa sorridere: con le gambe corte non si va distanti, prima di essere scoperti, e la storia del naso lungo - che ha fatto scrivere pagine e pagine a psicoanalisti per la possibile lettura fallica dell'episodio e valida, in questa chiave, per altre immagini usate dell'intero libro - evidenzia come, molto spesso, le bugie siano visibili. Non basta, come fa Geppetto, tagliare il naso, perché l'effetto duraturo della bugia torna, comunque è sempre, a galla. Bisogna poi ricordare che la parola bugia - che nell'uso comune ha ormai seppellito il latinismo "menzogna" - viene dal provenzale "bauzia", di origini germaniche (esattamente dal tedesco "böse") nel significato di cattivo. Perché il bugiardo cronico, sia chiaro, è cattivo e non a caso Dante mette «i falsari di parola» nel suo personale Inferno, facendoli soffrire di fortissime febbri, che gli fanno fumare del vapore puzzolente attorno. Molto interessante ed istruttivo in epoca pre-elettorale...