La pandemia ha dimostrato alcune cose, che emergono ormai con cristallina chiarezza e sarebbe bene rifletterci, specie da parte del nuovo Governo, che nasce con un'impronta da unità nazionale di fronte alla crisi, ma con una compagine così eterogenea da sollevare più di un interrogativo. Le circostanze, tuttavia, sono eccezionali e dunque, almeno in partenza, meglio evitare di essere schizzinosi e questa apertura non significa affatto non considerare il rischio di avere brutte sorprese. Per questo è necessario essere vigili ed anche propositivi. Inutile dire come la pandemia abbia infettato tutto, anche nella singolare commistione fra scienza e politica. Nessuno nega la necessità che gli esperti abbiano un ruolo rimarchevole, frutto degli eventi, ma sarebbe bene che si uscisse dalle troppe chiacchiere televisive e dalla cacofonia di posizioni sul medesimo soggetto. Ai decisori politici, valutato tutto quanto necessario, deve toccare l'ultima parola, di cui assumersi la responsabilità.
Non esiste, neppure di fronte alla pandemia, una "zona franca" in cui venga sospesa la democrazia, come in parte avvenuto - snaturando il ruolo del Parlamento - attraverso la ridda di "Dpcm" scritti con i piedi e spesso tardivi. Anche oggi, rispetto a questo affermarsi di varianti del virus, esiste un'insostenibile opacità sulla gravità della situazione e nulla va nascosto sulle reali condizioni all'opinione pubblica. I cittadini non sono dei minus habentes cui non dire le cose, come se fossero dei bambini dell'asilo o una massa di manovra informe. Una cittadinanza consapevole significa considerare le persone in grado di capire e anche di comprendere le circostanze conseguenti a fatti gravi. E' indubbio come ci sia stata una visione centralistica e dirigistica esacerbata e che la dimensione urbana, quella delle grandi città, sia stata il modo prescelto da imporre in modo cieco e senza distinzioni. Questa imposizione illogica e talvolta violenta cozza contro il buonsenso prima ancora con il Diritto e le sue basi fondative di una civile convivenza. La seconda riguarda l'abisso creatosi fra montagna e pianura. Si era già manifestato per le ragioni espresse nella prima parte. Come immaginare il confinamento nello stesso modo in un paese di montagna in una città come Roma e lo stesso vale per la chiusura dei confini in una Regione urbanizzata come la Lombardia confrontata ad una Valle d'Aosta. L'abominio lo si è raggiunto con gli impianti a fune considerati causa di ogni male assieme allo sport dello sci. Mentre altrove, proprio nelle città, l'assembramento per strada o nei mezzi pubblici raggiungeva punte incredibili, il contraltare era stata la chiusura laddove gli spazi sono immensi e le code gestibili in sicurezza. Questo pesa sulla nostra economia e sulla tenuta sociale, specie del mondo alpino, che soffre e si deprime, protesta e non capisce. Se non si vuole peggiorare la situazione è necessario che si apprezzi il fatto che situazioni diverse necessitano flessibilità nelle norme, che possono essere adattate e applicate intelligentemente solo a livello locale. Esiste una puzza di "colonialismo" ed uso le virgolette perché capisco come il termine debba essere contestualizzato, ma è esattamente quella logica di diktat con norme rigide e talvolta astruse e mai sufficientemente discusse con coloro che ne subiranno le conseguenze. Esiste una sorta di pregiudizio verso i montanari, cui sembrano doversi applicare atteggiamenti pedagogici nel prenderli per mano. Inutile dire quanto io disprezzi questo disprezzo.