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03 giu 2021

Chiusi in uno schermo

di Luciano Caveri

Quindici anni fa cominciai ad usare in Regione, in modo piuttosto ordinario per riunioni di lavoro, la videoconferenza con Roma e con Bruxelles. La scelta all'epoca appariva, per alcuni, eccentrica, per me che venivo dal lavoro televisivo - e dunque dalla normalità di collegamenti di questo genere - non lo era affatto. Ora quell'intuizione che precorreva i tempi è diventata la normalità ed entrerà nelle nostre abitudini più di quanto si immagini. E' stata la pandemia, con il confinamento, col lavoro a distanza e le regole sanitarie restrittive anche per chi ha continuato a lavorare in presenza, a dettare l'agenda. Ancora oggi, che le maglie piano piano si allargano, la mia giornata resta scandita da molte riunioni o conferenze in remoto. E' una modalità in molti casi faticosa, che allunga i tempi e rende più macchinose le decisioni, oltreché non consente quel rapporto umano fatto di messaggi corporali, di posture, di espressioni, persino silenzi e anche occhiate, sorrisi, musi lunghi.

Ci sono volte in cui ho avuto collegamenti con decine e decine di persone - specie con le scuole che si sono dovute assuefare a lezioni in didattica a distanza mai sostitutive davvero di quelle in aula - in cui il mio computer o il tablet diventano come le pagine delle figurine dei calciatori della "Panini". Più persone ci sono, anche come semplici uditori, e più cresce il ricordo piacevole di ampie platee senza mascherine coprivolto cui parlare in modo urbano e non lamentandosi dei disturbi dei microfoni aperti o del segnale che va e che viene smozzicando certi interventi. Eppure ci si dovrà abituare, bisognerà migliorare i sistemi ed avere regole di comportamento e di gestione, fatte anche di un galateo apposito e pure di un rispetto maggiore dei tempi, per evitare certe maratone che stremano. Eppure neppure il più ribelle all'uso del remoto non può negare un'evidente funzionalità. Penso alla didattica a distanza, che come dicevo non potrà mai sostituire la necessità e la voglia di avere una reale comunità scolastica. Però come non apprezzare l'idea di poter avere a distanza conferenzieri altrimenti non ottenibili, con cui non solo avere un ascolto passivo, ma poter persino interloquire? Lo stesso vale per chi come me fa politica ed in passato doveva sobbarcarsi trasferte lunghe e costose per qualche minuto con un ministro o un funzionario. Oggi se il collegamento è buono e regna il bon ton e non si è troppo di corsa la riunione via video può essere anch'essa fruttuosa. Lo vedo anche in certe riunioni a carattere internazionale in cui magari esiste pure la necessità di traduzione simultanea. Se si riesce a gestire bene l'insieme degli interlocutori le cose possono marciare più che bene. E' evidente in questi come in altri casi quanto la figura del moderatore capace possa rendere gli incontri equilibrati e fattivi. Tutto ciò dimostra quanto l'evolversi delle tecnologie e delle loro applicazioni possano aiutarci nel lavoro. Questo discorso apre la strada alla questione nodale della digitalizzazione di cui si parla molto, che è fatta di strumentazione, di reti, di buone pratiche e anche di formazione. Ancora oggi chi lavori nel pubblico ma ciò vale anche nel privato, si accorge di come sia difficile sradicare abitudini e prassi all'insegna dell'«abbiamo sempre fatto così!». Caso di rinuncia nella vita, come segnalava Marcel Proust: «Di solito viviamo con il nostro essere ridotto al minimo, e la maggior parte delle nostre facoltà restano addormentate, riposando sull'abitudine, che sa quel che c'è da fare e non ha bisogno di loro».