So bene come si debba essere cauti in questa fase della pandemia e sia necessario tenere alta la guardia, perché basta poco per ritrovarsi nei guai, come può capitare ad esempio se non si prende sul serio l'importanza della terza dose su cui in Italia si dorme. Però è del tutto legittimo chiedersi che cosa sarà la comunità valdostana, nel più vasto contesto cui apparteniamo, quando ci lasceremo il virus e le sue conseguenze alle spalle. Bisogna farlo annusando l'aria dei tempi, perché è doveroso programmare il futuro, pur consci come sempre è bene fare delle molteplici e complesse varianti che possono mutare lo scenario. Lo ha dimostrato la pandemia stessa, piombataci fra capo e collo come una sciagura e dobbiamo consolarci con la vecchia banalità di come dal male nasca il bene.
Commentavamo qualche giorno fa con degli amici come la velocità dei cambiamenti di questi decenni obblighi sempre ad essere guardinghi e soprattutto pronti a rimettere in sesto discussione certezze ed anche decisioni con una flessibilità e con un continuo apprendimento che mai c'è stato in passato. Siamo sempre di corsa e obbligati ad adeguarci per non dover rincorrere. Un primo dato è certo. Ci saranno ferite da rimarginare. Questo vale anzitutto per le conseguenze economiche, che già stanno incidendo sui bilanci pubblici e su attività imprenditoriali colpite dalle conseguenze delle scelte operate per evitare i contagi. Ma ciò vale anche per l'emergere di una minoranza di contrari al vaccino, che hanno posto nel nostro privato, e più in generale nella società, una forte lacerazione nella coesione necessaria di fronte ad un'emergenza. Si tratta ora non solo di capire questo fenomeno di irrazionalità, pieno di livore e spesso di aggressività, ma di ricucire un tessuto di rapporti umani così lacerato. Ricominciare implica un generale senso di responsabilità e la riconferma di valori comuni. Non è un appello ad un generico embrassons-nous, ma la considerazione che senza un idem sentire basato su un senso di appartenenza e di condivisione il post pandemia sarebbe più complicato e non si sfrutterebbe quell'onda positiva che sempre segue periodi difficili e dolorosi. Certo un ruolo capitale lo riveste chi ha ruoli di responsabilità in politica e non solo. Bisogna su questo fare il punto con grande serietà. Si tratta di combattere il seme pernicioso della tendenza al conflitto ed alla polemica. Non faccio il predicatore e dunque non mi sento di invocare nobili e condivisibili valori evangelici, ma di proporre la necessità di ritrovarsi attorno ai principi troppo spesso dimenticati della nostra Autonomia. Per responsabilità dei singoli e errori collettivi credo che tutti sappiano come molte cose potrebbero e dovrebbero funzionare meglio e la crisi di partecipazione alla politica e l'esistenza di punte di mediocrità non aiutano. Ma la scossa che viene dalla necessità di rialzarsi obbliga le migliori energie ad un dialogo su quel che bisogna fare in un patto generazionale per sfruttare un periodo che può essere positivo, per quanto ancora venato di qualche incertezza. Ha scritto con maggior efficacia di quanto io potrei fare Karl Popper: «Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte». Dove farlo? Questo è l'aspetto più difficile, perché un dibattito aperto è ben diverso dalle conventicole chiuse che rimuginano su sé stesse vecchie idee e ritrite posizioni ideologiche, spesso avvelenate da rivalità e ambizioni. Lavorarci sopra è indispensabile.