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16 dic 2021

Questione di stelle

di Luciano Caveri

Oggi citerò Valerio M. Visintin, scrittore e critico gastronomico. La "M" sta per Massimo, ma potrebbe benissimo essere usata per "mascherato". Visintin, infatti, non si fa mai vedere in volto in occasione di eventi pubblici, protetto da un costume nero, un cappello nero, occhiali neri, giacca di pelle, guanti tagliati e passamontagna. Serve per non farsi riconoscere quando va a recensire un ristorante, come invece capita a "critici mediatici". Ma una premessa è necessaria: per il 2022 sono rimasti solo due stellati (una stella ciascuno), vale a dire il "Petit Royal" di Courmayeur (chef Paolo Griffa) e il "Vecchio Ristoro" di Aosta (chef Filippo Oggioni). Griffa, geniale e sorprendente, a mio avviso, meriterebbe al più presto la seconda stella anche per lo straordinario uso di prodotti locali.

Gli altri stellati valdostani di un recente passato sono spariti per diverse ragioni e in certi casi mi spiace molto. Ricordo "Le Petit Bellevue" di Cogne, il "Café Quinson" di Morgex, "La Clusaz" di Gignod. Meritevole di stella sarebbero subito "Le Grenier" di Saint-Vincent (chef Stefano e Bruno Mazzotti) e vedo in corsa anche "Stefenelli Desk" (chef Marco Stefenelli) di Aosta. Ma veniamo all'annunciato articolo pubblicato su "Domani": «La droga degli chef si chiama "stella Michelin". Qualcuno ritiene che sia una medicina. Ma i benefici a medio e lungo termine sono piuttosto incerti, perché gli incassi, se aumentano, non coprono le spese che lo status di "stellato" impone come contrappasso alla gloria. In compenso, i sintomi da sballo coincidono sinistramente con gli effetti collaterali: crisi di pianto, insonnia, enuresi notturna, disturbo da panico, secchezza delle fauci, tremore, irritabilità, ansia, pelo sullo stomaco. Può sembrare un paradosso, ma la maggior parte dei cuochi d'alto bordo ambisce a questa consacrazione (e al suo eventuale indotto) più che a una sala piena di clienti. In nessun altro campo della umana creatività si vive in così diretta e ossessiva dipendenza da un riconoscimento pubblico». Interessante per relativizzare questa corsa alla stella e lo stress da mantenimento. Ma confesso che spesso mi affido a "Michelin" e non solo per gli stellati e trovo abbastanza grottesca, perché scelta per semplice moda, la "stella verde" per gli chef che si siano distinti rispetto a temi come il rispetto per l'ambiente, l'etica del lavoro e la lotta allo spreco alimentare. Ma torniamo al critico gastronomico e ad un suo ragionamento: «Personalmente, aborro coppe, targhe e premietti per le ragioni che vi illustrerò tra qualche riga. Ma prima parliamo di voti, che sono spesso chiamato ad apporre in calce alle recensioni. Mi adeguo per spirito di servizio e per adesione al fascino indiscreto delle pubbliche pagelle. Tuttavia, percepisco razionalmente i limiti di queste misurazioni. La verità è che non si può usare lo stesso metro per soppesare il rendimento di ristoranti con ambizioni, cilindrate e calibri diversi. Facciamo un esempio. Se, per dire, assegno un "7" alla cucina dello chef stellatissimo Turi Mori della "Lapide" di Casal Mottugno Novarese - ristorante dal quale non si esce senza aver mollato 350 euro a cranio - significa che l'ho sostanzialmente bocciato. Ma lo stesso "7" rappresenta una promozione piena, se mi riferisco ai piatti della "Trattoria di Licia la Lercia", nel suburbio di Budolone Calabro. Ciò non significa, ovviamente, che Licia cucini meglio del super chef. Il fatto è che si esprimono in categorie differenti e imparagonabili, come nella boxe. Oppure, immaginiamo che sala e servizio dello chefstar mi appaiano ineleganti e in debito di comfort. Deluso, potrei timbrare un "6,5". Ma, allora, a Licia che ha il perlinato alle pareti e un ex giovane di sala che ciabatta impacchettato da cinquant'anni nello stesso gilet color zerbino, cosa devo dare? Meno uno? In definitiva, c'è un carico di legittime aspettative, determinato dal conto e dal lignaggio dell'insegna, che è parte integrante del vaglio, ma non è esprimibile attraverso una rigida classificazione numerica. D'altra parte, bisogna fare i conti anche con l'accezione corrente di queste valutazioni. Voi scegliereste di spendere una serata in un ristorante che ha un "6" in pagella? La sufficienza risicata alla quale si aggrappa uno studente svogliato non basterebbe a promuovere e consigliare un ristorante. Un "6", in questo campo, ha il sapore di una stroncatura. E, per contro, cosa vi attendete da un cuoco che abbia preso un "9"? Bocconi paradisiaci, virtuosismi ineguagliabili, magie divine e assolute che non ho mai incontrato nella mia trentennale carriera, fatta di miserie e nobiltà, parziali e umane. Per ovviare a questi squilibri, anni fa, studiai e perfezionai un sistema di valutazione che tenesse conto del coefficiente di difficoltà, come nelle gare dei tuffi olimpici. Si trattava di un ingranaggio cervellotico, con sottrazioni, addizioni, parentesi quadre e graffe. Per scegliere dove andare a cena, il lettore avrebbe dovuto applicare la successione di Fibonacci o chiedere consulenza al "Caf". Mi fu consigliato con una certa energia di rinunciare al progetto». Ovviamente i nomi citati sono di fantasia, ma condivido che riassumere tutto in elementare simbolistica, tipo stelle, finisce per essere troppo riduttivo!