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15 ago 2022

Il naufragio e lo stoccafisso

di Luciano Caveri

Mi viene in mente il piccolo negozio di alimentari, scomparso da decenni. In un angolo - direi per soddisfare in primis i molti veneti immigrati a Verrès, il mio paese valdostano - c’era una bacinella con dentro lo stoccafisso, che non è altro che il merluzzo conservato intero per disseccamento. Infatti la parola viene dall’olandese stocvisch, da stoc ‘bastone’ e visch ‘pesce’, perché il pesce viene essiccato su impalcature fatte di pali. Mi ero sempre chiesto cosa diavolo c’entrasse lo stoccafisso - prodotto del Grande Nord - con il Veneto, quando l’arcano assai singolare mi è stato svelato da un articolo di Niccolò Rinaldi con cui lavorai a Bruxelles, che mi rimbalzato su di un libro - che poi ho letto - intitolato “Infelice e sventuratta coca Querina”, che racconta del naufragio dei Veneziani nel mare del Nord. Così sintetizza con un’immagine poetica lo stesso Rinaldi: “Scopriamo la fraternità dei tracciati di geografia, cultura, tradizioni, avventure, sentiamo il mondo intero come una sola casa, in luoghi che parlano e tacciono, come una lapide in un‘isola remota, alle Lofoten. Lontano, a tavola a Venezia, un piatto tipico offre la stessa epifania, racconta la stessa storia.”. La storia è questa: “Ricorda un naufragio di sei secoli prima, quello della nave veneziana Querina, affondata al largo dell’Irlanda e poi alla deriva per sette mesi. Alcuni marinai morirono divorati letteralmente dai pidocchi che scavarono la pelle fino ai nervi, altri sopravvissero bevendo urina mescolata con zenzero e qualche spezia. Solo due scialuppe approdarono miracolosamente nel gennaio del 1432 all’isola norvegese di Røst. Dei sessantotto membri dell’equipaggio, ne sopravvissero sedici, e tra questi il comandante Pietro Querini”. È lui l’autore del racconto delle loro vicissitudini in una lingua, tratto da manoscritti in lingua veneta o meglio veneziana. Spiega ancora Rinaldi: “Erano partiti dalla solare Creta e dovevano sbarcare spezie e vino nelle Fiandre, e invece la destinazione finale fu una terra sconosciuta e dura, e delle mercanzie non avevano più nulla. Ai pochi abitanti delle Lofoten apparvero come marziani, signori malridotti ma subito percepiti come appartenenti a una cultura superiore, cosmopoliti e con un codice comune: quello delle genti di mare, dei mercanti viaggiatori. Soprattutto, condividevano con loro la fede in Cristo, e subito i pescatori condivisero il poco che avevano. Richiamato dall’arrivo di quei naufraghi malconci ma illustri, un sacerdote con poche parole di latino riuscì a intendere la loro storia”. Ed è li che scoprirono l’antica tecnica locale di conservazione del pesce, seccato -come già detto - all’aria aperta. Osserva ancora Rinaldi: “Rifocillati e arrivata la primavera, i veneziani poterono ripartire per il lungo viaggio terrestre verso casa. Tornarono sani e salvi a Venezia, portandosi dietro sessanta di quei merluzzi saporiti e duri come il legno. Si rivelò una scoperta provvidenziale per le provviste di ogni spedizione navale e a Venezia fu trasformato facilmente nel baccalà, cucinato e mantecato, come ancora oggi. Nei confronti di quei pescatori norvegesi la gratitudine si trasformò in una relazione commerciale e cominciarono le importazioni. Ancora oggi buona parte dei quaranta milioni di chili di merluzzo delle Lofoten sono esportati in Italia”. Una storia avvincente e dettagliata che il libro esprime con un’introduzione accademica di Andrea Caracausi e Elena Svalduz, che spiega bene lo stupefacente ruolo di Venezia. Concludo a proposito con questa citazione: ““Al di là del suo valore documentario, il resoconto del viaggio della “cocca querina” rappresenta un tassello importante non solo per il tema dei rapporti commerciali di Venezia con il Nord Europa e le conoscenze cartografiche a esso correlate, ma anche–da un punto di vista più socio-antropologico–per l’incontro con popoli sconosciuti e le modalità con cui entrarono in rapporto. Dal punto di vista commerciale bisogna in primo luogo ricordare come l’esperienza del Querini si legasse almeno in parte a un sistema già ampiamente in vigore, quello degli scambi europei fra Tre e Quattrocento. L’integrazione fra Europa settentrionale e meridionale, fra Baltico e Mediterraneo, era il risultato di contatti e interazioni frequenti che vedevano i porti di Bruges e Londra nodi centrali nello scambio di materie prime o prodotti finiti, quali lane, stagno, pelli dal Nord e spezie, cotoni e vini dal Sud, senza dimenticare tessuti, preziosi e altri generi alimentari che viaggiavano nell’uno o nell’altro senso. Questo incontro “europeo”, è bene ricordarlo, altro non era se non un piccolo segmento all’interno di una ben più vasta rete di scambio che partiva dall’Estremo oriente e che, attraverso carovane di terra e vie di mare giungeva fino al Mediterraneo orientale, portando i ricchi e pregiati prodotti asiatici, i cui paesi (India e Cina su tutti) erano leader della produzione artistica e tecnologica mondiale. Un paesaggio quindi ben più ampio, dove la “piccola” Europa era ben lontana dall’essere al centro di questa rete, rimanendo invece il più delle volte debitrice nei confronti delle più avanzate economie orientali. Venti e tempeste regnavano sovrane all’interno di questo quadro, rendendo l’attesa (e la pazienza) uno degli elementi principali”.