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10 set 2022

Il lato oscuro dei sabot

di Luciano Caveri

Ci sono scoperte improvvise di qualche cosa che hai sotto gli occhi e non ci hai mai pensato e se la cosa finisce per far sorridere è un valore aggiunto. L’altra sera ero a cena Domenico Siniscalco, courmayeurin d'adozione e appena nominato alla Presidenza della Fondazione Courmayeur, e chiacchieravamo dei tempi dell’Università, quando si frequentava con mio fratello Alberto e anch’io vissi qualche tempo - anche se più giovane - quel clima torinese. Erano gli “anni di piombo”, ma la giovinezza era un antidoto contro ogni cupezza. Ho raccontato così, per collegamento con gli studi, di quando allora ragazzetto andavo d’inverno a Torino a Palazzo Nuovo, sede dell’Università, con i sabot ai piedi per esibizionismo, spesso con una salopette di jeans e un montone sui quali è bene far cadere l’oblio. Di conseguenza ho dovuto spiegare il perché. I sabot (“tsoquè” nella lingua francoprovenzale), sono le tipiche calzature in legno, sono l’elemento caratterizzante dell’artigianato tradizionale dell’alta Val d’Ayas. 
Il mestiere del sabotier, con una forma di vendita del prodotto scendendo anche nelle pianure piemontesi, era un tempo molto diffuso poiché consentiva di lavorare anche durante i lunghi mesi invernali, periodo in cui le attività agricole non potevano essere svolte. Domenico mi guarda e dice: “Già, da lì - se ricordo bene - viene anche il verbo “sabotare”!” Apriti cielo! No. Ci avevo mai pensato! Sabotare sarebbe: “Sottoporre edifici, impianti, servizi, eccetera., ad azioni di sabotaggio, specialmente a scopi di rappresaglia politica, economica o militare."sabotare un macchinario". O anche: “Ostacolare o disturbare la realizzazione di qualcosa; boicottare il progetto del ministro". Appurato dunque che è un francesismo scavo trovo questa spiegazione sulle origini: “Le mot sabotage a pour racine sabot. Le sabot est une chaussure en bois. Au XIXe siècle, les ouvriers portaient des sabots au pied. Lorsqu'il y avait une grève, ils utilisaient probablement leurs chaussures pour casser les machines avec lesquelles ils travaillaient. C'est probablement l'origine du mot sabotage”. Trovo poi un ulteriore indizio che fa sorridere su sabot: “De l’ancien français çabot, inflexion de bot (« botte »), de savate (« soulier »), de l’ancien occitan sabata, du turc zabata, de l’arabe sabbât (« sandale ») ; cf. italien ciabatta (de ciavatta), espagnol zapato”. Mi viene in mente quando sono stato ad Amsterdam, dove negozi di souvenir campeggia molto del ciarpame visibile in ogni parte del mondo, ma certo per un valdostano colpisce la presenza di zoccoli in legno, molto simili proprie alle già citate alle "tsoque" fatte dai sabotier valdostani di Ayas, anche se sono calzature da campagna più basse e più panciute. Ricordo - anni fa - un ayassin doc che raccontava ad avvenenti turiste in preda alla speranza di acchiappo ma in piena presa in giro chiamata "cabala" in patois locale - come un olandese fosse capitato ai piedi del Monte Rosa e avesse istruito i montanari alla lavorazione dei sabot. Una balla, naturalmente, ma trovo che un "ponte" oggi ci dovrebbe essere: trovo che i nostri sabotier potrebbero creare delle linee nuove da ornamento, con colori accesi e geometrie bizzarre, come fanno lassù. O si tratta di sabotaggio della tradizione?