È ormai evidente, leggendo tutti i giornali di qualunque colore politico, che per loro il messaggio contro l’autonomia differenziata, prevista per le Regioni a Statuto ordinario dall’articolo 116 della Costituzione, si sia affermato come verità indiscutibile. Tutto viene presentato come qualcosa di stravolgente, che attenterebbe all’unitarietà dello Stato e sarebbe la peggiore delle rivoluzioni. Le grida più forti vengono dal Sud, dove urla e strepiti hanno accolto ogni tentativo di una norma che dev’essere applicata molto semplicemente perché scritta in Costituzione. Anche se ben sappiamo quante parti di questa nostra Costituzione siano rimaste inespresse in barba alla retorica adoperata per la sua esaltazione periodica. Intendiamoci: le materie dell’autonomia differenziata sono limitate e potranno essere disciplinate senza immaginare chissà quale sconvolgimento. Ma, come spesso capita, basta che uno lanci l’allarme, anche se infondato, e molti pecoroni si metto in fila per seguirlo e si gonfia la valanga durante la caduta. Chi ha studiato quelle modifiche apportate nel 2001, su cui io stesso ho lavorato alla Camera, sa bene che si tratta per lo Stato di rinunce non sostanziali e facilmente stoppabili nel caso di improbabili, anzi impossibili derive. Invece la logica del “sbatti il mostro in prima pagina” ha raggiunto vette ridicole per chi conosca la materia. Ma ormai conoscere non conta… Il circo dell’antiregionalismo è fatto di propaganda e dimostra con facilità che l’Italia resta un Paese che non capisce il regionalismo e finge di avere uno Stato solido ed efficiente che garantirebbe meglio il cittadino delle forme di democrazia locale. Lo si è visto con la logica statalista all’epoca della pandemia e con la gestione centralista disastrosa del famoso PNRR. Così di fatto si butta nella pattumiera la riforma del regionalismo del 2001, che rafforzava le Regioni, immaginando anche questa nuova autonomia differenziata. Riforma pian piano indebolita nei fatti, svilendo quei miglioramenti anticentralisti che erano avvenuti e che in molti casi sono rimasti inespressi. Intanto il regionalismo si è indebolito e questo è avvenuto anche con l’elezione diretta dei Presidenti di Regione, che con la logica cesaristica della loro investitura popolare hanno svuotato il ruolo dei Consigli regionali e in molti casi si sono occupati più di consolidare la loro immagine, spesso per un balzo verso la politica nazionale, che a coltivare il giardino del regionalismo. Il tema del possibile federalismo è persino scomparso dal dibattito e oggi si mercanteggia sull’autonomia differenziata, che nulla ha a che fare con il federalismo. Anche nella nostra piccola Valle d’Aosta del federalismo si parla meno, affondati come siamo nelle solite querelles mai così sanguinose, cui ormai abbiamo fatto il callo. Così non si ragiona più abbastanza sulle norme di attuazione da approvare per modernizzare il nostro Statuto e a una sua riforma complessiva, spingendo sulla logica dell’intesa con lo Stato. Sarebbe ora, se si riesce a non navigare a vista e a cadere nel vecchio rischio del “divide et impera”, di rilanciare la discussione sul regionalismo in Italia e da noi su di un nuovo Statuto in questo contesto. Ma per farlo ci vuole solidità e, quanto ancora più difficile, capire il perché della necessità di farlo. Pian piano - se non ci si fa attenzione - si potrebbe perdere il fil rouge delle ragioni dell’Autonomia e del suo progressivo consolidamento e miglioramento. Sino al rischio - facciamo gli scongiuri - di smarrirlo del tutto.