Occuparmi di Affari europei e assieme di politiche della montagna è per me fonte di grande soddisfazione. Lo è ormai da tanti anni con diversi ruoli e trovo che avere a che fare con le diverse materie afferenti comporti grandi occasioni di crescita. Ieri ero, presso la Città metropolitana di Torino, per un evento conclusivo (ma tornerà) del Piter Graies Lab, che riunisce diversi partner piemontesi e savoiardi e naturalmente valdostani. Per capirci ci sono elementi simbolici che uniscono. Penso al Canavese confinante con la Valle, alle vallate del Gran Paradiso che ci accomuna con il Piemonte, alla Valle di Lanzo dove operò Aymone di Challant, alla Savoia con quel luogo magico e dalla grande profondità storica del Colle del Piccolo San Bernardo. Esiste in questo caso - lo dico con il sorriso - l’unica querelle su dove nacque San Bernardo. Noi sappiamo ormai che le fonti storiche lo fanno aostano, mentre in Savoia di insiste sulla sua nascita a Menthon sul Lago di Annecy, malgrado sia ormai un accertato falso storico. Ma quel che conta è la filosofia di fondo di questa cooperazione territoriale, che è in questo caso un dato che deriva dall’appartenenza comune e millenaria sotto Casa Savoia con linee confinarie cicatrici della Storia, che andavano ricomposte per cultura e vicinanza, dopo essere state artificialmente create dagli Stati nazionali in una logica di fare delle vallate alpine dei cul de sac. La cooperazione transfrontaliera è dunque una sorta di piccola politica estera, nel quadro della politica regionale comunitaria (grande intuizione di Jacques Delorsche grazie all’Europa ha superato l’ottusità degli Stati che fino a non molto tempo fa avversavano assurdamente certi legami nel nome della sovranità statale esclusiva. Un vecchio retaggio ormai da considerarsi illogico e anacronistico, ma temo non ancora sepolto del tutto. A questo si aggiunge un problema di cui si discute su tutte le Alpi ed è il rapporto fra la montagna e la pianura subalpina, dove si trovano le grandi città. C’è chi - penso a Mariano Allocco o ad Annibale Salsa - predica da tempo la necessità di un vero e proprio patto fra questi territori, partendo beninteso da una logica di eguaglianza. Gli strumenti per farlo non sono facili e ci vorrebbe da parte di noi montanari un passo in avanti, una proposta seria, programmatica e assieme piena di ideali e di valori. Nel prossimo dicembre si celebrerà L’ottantesimo anniversario della Dichiarazione dei popoli alpini di Chivasso, scritta da valdesi e valdostani nell’ormai lontano 1943, in un periodo storico difficile con il giogo nazifascista che imprigionava ancora l’Europa e i montanari lanciarono in clandestinità questo manifesto a vantaggio di tutti i popoli alpini. Temo sempre le celebrazioni a rischio retorica. Per questo mi piacerebbe - e la Valle d’Aosta è certamente pronta - che l’occasione, come avviene con un vecchio albero che si rinnova nel tempo, servisse a far germogliare una nuova Dichiarazione di Chivasso, mettendo attorno ad un tavolo diversi attori per guardare avanti. Se nel 1943 i padri della Dichiarazione dettero dimostrazione di essere capaci non solo a guardare al loro presente ma a proiettarsi con preveggenza verso il futuro, allora spetterebbe a noi essere positivamente visionari e capire gli scenari attuali e con grande onestà nel spingerci oltre a certo tran tran che anestetizza le coscienze con proposte che servano per il futuro. Non ingabbiamoci in logiche convegnistiche e di politique politicienne. Bisognerebbe con grande semplicità ma con forte efficacia e pure con capacità autocritica muoversi con un confronto serio senza troppi fronzoli. Altrimenti sarebbe davvero un’occasione sprecata, specie guardando alla biografia dei protagonisti della Dichiarazione e a chi, su quelle pagine, ha riflettuto e sgobbato dopo di loro in un solco preciso, provandone ogni volta ad attualizzare i messaggi per evitare di essere anacronistici. L’esperienza delle Autonomie speciali dell’Arco alpino, pur non essendo lo sperato federalismo, resta un punto di riferimento, che deve accogliere tuttavia un dibattito più vasto, sapendo che c’è un debito storico verso le “altre” montagne che non hanno avuto medesimo destino. Per cui oggi ragionare sulle montagne alpine e sui popoli che le abitano, lato Sud e lato Nord, vuol dire aggiungere più Europa e tornare a certe radici federaliste, che spetta a noi mantenere vive per contrastare il ritorno a nazionalismi giacobini e centralisti e all’andazzo di chi guarda alla montagna con logica colonialista e con totale incomprensione del ruolo umano nello sviluppo dei territori. L’uso dell’orrendo termine “antropizzazione”, con l’uomo come elemento di inciampo, mostra una visione grottesca della Natura. Sono temi difficili, ma lancio davvero un appello accorato - e senza intenti strumentali o ambizioni personali - a camminare tutti nella stessa direzione e a scrivere una Dichiarazione condivisa e incisiva, che possa essere degna di quanto si scrisse - a rischio della propria vita (Émile Chanoux venne ucciso pochi mesi dopo dai fascisti) - in quello storico incontro.