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24 mar 2023

L’inossidabile mammismo

di Luciano Caveri

Incomincio, a scanso di equivoci e per non apparire eretico, con segnalare la piena considerazione della sonorità e del significato profondo umano e sociale della parola “mamma”. Esempio preclaro di parole che, nelle grammatiche delle diverse lingue, vengono definite come “onomatopee”. La si considera, infatti, come il risultato dei primi suoni, direi i barbottii pronunciati dal bambino, per cui la prima vocale di facile pronuncia è la “a”, mentre le prime consonanti sono quelle nasali, “m” e “n”. L’origine della parola Mamma da suoni spontanei, unici per tutte le culture, si ricava dalla somiglianza di questa parola in lingue molto diverse tra loro: mamma in inglese è mom, in tedesco mama, in francese maman, in greco mamá, in russo mama, in no lo swaili mama, in singalese amma, in eskimese anana. Fa impressione - e ho avuto prova di questo - come esista un fenomeno triste e assieme commovente che colpisce chi stia per abbandonare la vita e evochi negli ultimi istanti la mamma che li ha fatto nascere. Ma esiste, rispetto ai giusti sentimenti, anche una sorta di stortura e cioè il mammismo, che è sicuramente un male italiano. D'altra parte, la letteratura, la poesia, il cinema e tante, forse troppe canzoni ci ricordano che non c'è Paese al mondo che abbia tanto esaltato la mamma nei secoli. Se già questa realtà è facile da dimostrare, pur a a qualche rischio stereotipo, mancava solo un nome che lo definisse. E questo arrivò nel clima effervescente del secondo dopoguerra dopoguerra, quando si cominciò a guardare con piglio sociologico ai pregi e ai difetti dell'identità nazionale. Fu infatti nel 1952 che dalla penna dello scrittore calabrese Corrado Alvaro uscì per la prima volta una parola che si dimostra intraducibile nelle altre lingue ed è già un indizio: la già citata “mammismo”. L’esperienza europea in questo è senso è stata illuminante in un mondo di stagiaires che rendono Bruxelles una città giovane e dinamica. Solo in questi ultimi anni gli italiani (e questo vale anche per i valdostani) iniziano a liberarsi del rischio di non muoversi per eccessi di legame con la famiglia di origine, quanto già da tempo i nordici - compresi i Paesi del famoso allargamento - facevano con un taglio del cordone ombelicale che significava libertà e autonomia personale. Insomma liberarsi dal mammiamo vuol dire anche avere meno mammoni. Ma certo le categorie sono sempre in evoluzione e così scrivono Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli, nel loro “Nuovi adolescenti, nuovi disagi”: “Se i vitelloni rappresentavano l'anima grezza e un po' sguaiata di una classe di giovani alle prese con la ricostruzione del dopoguerra e i mammoni quella impaurita e recalcitrante della generazione successiva di fronte a una società troppo complessa e dispersiva, i bamboccioni si pongono in posizione intermedia: dei vitelloni hanno lo spirito edonista, dei mammoni lo stesso adagiarsi in seno ai benefìci offerti dal vivere nelle case dei genitori”. Già i discusso “bamboccioni”, che sono nient’altro che giovani adulti che invece di rendersi autonomo continua a stare in casa coi genitori e si fa mantenere da loro. Collegamento per essere onesti con certa triste precarietà, ma anche - e torniamo all’inizio - con il mammismo italiano.