C’è chi in Italia, afflitto da una pervicace avversione per la Francia e spesso per il Presidente Macron, si bea delle manifestazioni violente e distruttive delle scorse ore nelle città francesi. Si punta il dito sul modello post colonialista francese e sulle periferie che hanno creato ghetti e emarginazione. Tutto vero, ma davvero l’Italia pensa di poter dare lezioni di civiltà sul punto? Di grazia quale sarebbe lo straordinario modello d’integrazione che permette di spiegare il da farsi Oltralpe? La verità è che siamo tutti in difficoltà a capire come fare con flussi migratori che stentano a integrarsi e propongono modelli di società che spesso cozzano con lo Stato di diritto occidentale. Chiudersi in proprie comunità non è solo il frutto delle deprecabili emarginazioni, ma spesso la scelta cosciente di dare vita a gruppi organizzati in reti familistiche che ricreano mondi vissuti nel Paese d’origine, talvolta - laddove agisce il radicalismo religioso - con disprezzo per chi ti accoglie. La storia degli “infedeli” per estremisti islamici o loro simpatizzanti non è purtroppo un’invenzione e lo si vede dai profili criminali di attentatori che hanno agito in Europa e negli Stati Uniti. A segnalare il problema non si è destrorsi o retrivi, ma realisti, sapendo che le migrazioni non si fermano, ma regolarle è un dovere più che un diritto. Chi vorrebbe frontiere aperte è un demagogo e chi tollera comportamenti contro le leggi non capisce i rischi che corre. Quando sono stato a New York nel luogo per eccellenza dell’arrivo degli immigrati, vale a dire Ellis Island, isolotto alla foce del fiume Hudson nella baia, ho visto negli elenchi dei Caveri passati di lì non so poi con quale destino, chi partito da Genova (a due passi da Moneglia e dai paesini dell'entroterra dove vivevano i miei avi più lontani, prima che il mio bisnonno venisse in Valle d'Aosta e ci imparentassimo con famiglie di antico ceppo locale), chi da Le Havre in Francia forse perché costava meno il viaggio e chi, dopo una prima emigrazione, dall'Argentina, dove un ramo dei Caveri è rimasto stanziale, parte a Buenos Aires e parte in Patagonia (alcuni sono ora a a Parigi). Questo per dire che chiunque scavi nella storia delle proprie famiglie può trovare vicende di emigrazione. E gli Stati Uniti sono stati sempre un punto di riferimento sulle riflessioni sul tema. Pensiamo al mito del tutto parziale del melting pot. Treccani spiega meglio di me: “Amalgama eterogeneo di gruppi, individui e religioni, molto diversificati tra loro per ceto, condizione, appartenenza etnica, che convivono entro la stessa area territoriale geografica e politica. Riferita inizialmente alla società americana, l’espressione («crogiolo») è usata per indicare un particolare modello o ideale di società multietnica in cui dopo un certo tempo, segnato dal succedersi delle generazioni, le culture e le identità specifiche degli immigrati sarebbero destinate a fondersi con quelle dei paesi di accoglienza”. Anche negli USA la speranza è in parte svaporata e la società multirazziale resta oggetto di riflessione e certo a tendere bisogna augurarsi che si riesca a vivere davvero assieme, nel rispetto reciproco delle diversità. Penso proprio all’emigrazione valdostana che in paesi come la Francia e in certe zone degli Stati Uniti ha vissuto a lungo di legami con la Valle d’Aosta facendo rete solidaristica e di trasmissione di riferimenti con la terra d’origine , ma dimostrando una capacità esemplare di rispetto per la terra ospitante in una logica di integrazione compiuta nel passaggio fra generazioni. Temi complessi quelli evocati ed è bene non prenderli alla leggera e con le lenti distorcenti degli ideologismi. E una strada importante sarebbe chiudere la posizione comune europea con il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Il Presidente Meloni sul tema si è trovata di fronte all’incaglio dei suoi "amici” polacchi e ungheresi. Paradossi in politica.