C’è stato un tempo della mia vita in cui leggevo in modo continuativo le poesie e per farlo scoprivo i poeti. Ho letto di tutto sia in italiano che in francese. Da adolescente scribacchiavo qualche verso sbilenco. Rileggo ogni tanto e con invidia le poesie di mio zio Séverin Caveri e trovo in quelle generazioni tutte novecentesche una cultura umanistica profonda che anche oggi fa la differenza. Ora ne leggo meno e vedo attorno a me generazioni più giovani che, finiti gli obblighi scolastici in cui la poesia compare spesso in modo ripetitivo coi medesimi autori di sempre, alla Poesia dedicano in genere scarsa attenzione. Sul totale del mercato editoriale italiano, già esangue con il passare degli anni, i libri del genere oscillano fra lo O,5 e l’1% e, proprio tenendo conto degli obblighi scolastici, è poca cosa Sofia Greggio su BuoneNotizie aveva scritto con un barlume di speranza: “La poesia ha visto un declino sempre più allarmante negli ultimi anni; è stata surclassata dalla narrativa e dalla saggistica, divenendo impopolare come mai è stata storicamente. Ma forse siamo vicini a un cambio di direzione, che è iniziato con il fenomeno di Amanda Gorman. Con la sua raccolta “Call Us What We Carry” – in arrivo in Italia per Garzanti nella primavera del 2022 – si è piazzata al primo posto delle classifiche di New York Times, Usa Today, Wall Street Journal e Indie-Bound (superando John Grishman). Un successo importante per una forma d’arte rimasta tanto in ombra, ma che potrebbe rappresentare una gradito ritorno sul palco dell’editoria nel 2022 anche in Italia”. Per ora non mi pare che l’atteso risveglio sia avvenuto e mi spiace, ripromettendomi di comprare la citata raccolta che ha infiammato gli States. Marcello Veneziani, uno dei pochi intellettuali di Destra sinceramente federalista e per questo l’ho seguito nel tempo, ha scritto argutamente: “Il brutto è che i sedicenti poeti scrivono poesie ma non le leggono; non le proprie, che sanno a memoria, dico le poesie grandi. Da un popolo di poeti– occasionali, intermittenti, accaniti – uno si aspetterebbe un boom di libri di poesie. E invece niente. Perché scrivono poesie come sfogo del singolo, esaltazione egocentrica, preghiera a dei, natura o a singoli amati, soprattutto se perduti. E fin qui capisco. Ma scatta l’aggravante quando il poeta non vuole solo esprimere quel che ha dentro, ma pretende di pubblicare il suo sfogo e farsi ammirare”. Già leggere i classici è sicuramente un bene e consente di scavare nella lingua e l’obbligo di memorizzarne alcune per ripeterle a memoria è un esercizio utile e mi pare non più tanto praticato. “L’uomo sordo alla voce della poesia è un barbaro”, scriveva Goethe e si tratta di un grido da ascoltare. il filosofo Byung-Chul Han crede che stiamo sviluppando una fobia della poesia come società perché non siamo più ricettivi a quel meraviglioso caos letterario con cui dobbiamo connetterci a livello emotivo ed estetico. Saremmo schiavi nella sostanza di linguaggi standard, poveri di emozioni e sentimenti, mentre “La poesia è fatta per sentire ed è caratterizzata da ciò che chiama sovrabbondanza e significanti […] L’eccesso, la sovrabbondanza di significanti, è ciò che fa sembrare il linguaggio magico, poetico e seducente. Questa è la magia della poesia”. Insomma una prigione derivata da sorta di pigrizia intellettuale. Temo che il trionfo delle immagini e la rapidità crescente delle comunicazioni, che già si riflette su molte cose nella nostra vita, spenga l’approccio pensoso e la ginnastica mentale cui ci obbliga la Poesia.