Per evitare di finire anzitempo in panchina, se non in tribuna o peggio sul pullman della squadra, è bene evitare due cose. La prima, essenziale per non puzzare di muffa, è evitare di esaltare i tempi passati e le prodezze della propria giovinezza se rapportati ai tempi che viviamo per non creare un buco nero con chi ha la fortuna di essere giovane oggi. La seconda - e non mi stancherò mai di dirlo - è cercare di mantenere una sana curiosità per le novità per evitare - lascio il calcio e uso il ciclismo - di finire in fondo al plotone dei corridori. Indubbiamente oggi un pozzo di novità è questa storia di Internet, che sembra nell’uso delle sue diverse applicazioni come il cappello del mago o - lo scrivo, pensando al giornalino “Topolino”, appuntamento settimanale di quando ero bambino - come le tasche di Eta Beta. Ecco perché, nella logica di un entomologo che studia gli insetti, guardo al piccolo (si fa per dire…) di casa, che lanciato verso i 13 anni è - ahimè! - nativo digitale con tutte le conseguenze del caso, compresa una propensione addicted, cioè dipendente, dagli aggeggi elettronici o digitali, come dir si voglia. La propensione attuale è una specie di muto (tranne qualche suono gutturale di commento) ipnotismo creato dal susseguirsi, che potrebbe essere infinito, del famoso Tiktok. Come ben si sa questa piattaforma di condivisione video è di proprietà della società cinese Bytedance. Il Regno Unito e la Nuova Zelanda si sono aggiunti tempo fa all’l'Unione Europea, agli Stati Uniti, alla Danimarca, al Belgio e al Canada nel vietare ai dipendenti pubblici l'uso di TikTok. Gli esperti temono che le informazioni sensibili possano essere a rischio quando l'app viene scaricata, specialmente sui dispositivi governativi. Ma i giovanissimi non si creano problemi. Ne scrive su Il Foglio Giulio Silvano: “Era dal ping pong e dalla polvere da sparo che qualcosa di cinese non si affermava nel mondo con questa prepotenza. Tiktok, social-piattaforma di condivisione video costruita intorno agli smartphone, arrivato sette anni fa, è il social preferito della Gen Z. Sono gli zoomer, quelli nati tra il 1997 e il 2009 che oggi si laureano ed entrano nella workforce. Si parla soprattutto di Tiktok per la dipendenza che può dare, quella schiavitù dell’algoritmo che ci conosce meglio di nostra madre e che provoca la produzione di serotonina meglio di un carboidrato fritto”. Non mi dilungo sulla generazione Z, che probabilmente si estende almeno sino al 2012, ma noto che Tiktok è già appannaggio della successiva generazione Alpha. Sbirciate i tablet dati ai pargoli anche piccolissimi per farli stare buoni, ad esempio al ristorante e vedrete che la cineseria incombe. Silvano così prosegue: ”E poi quelle tiritere da clickbaiting, sui nuovi trend, le challenge e i balletti, soprattutto quelli mortali, che ai boomer (ma ormai anche alla Gen Y) piace tanto criticare negli editoriali. O paginate intere sui booktoker su Robinson, con commento di Corrado Augias, e via così. Il Cav. aveva proposto che si chiamasse Tiktoktak”. Mi domando sempre quale esperto di comunicazione abbia indotto il povero Cavaliere ad esibirsi, sfidando il senso del ridicolo, su Tiktok… Il giornalista pone poi un interrogativo: ”Perché i nostri social non sono altrettanto addictive? Si chiedono nella Silicon Valley. Per capire i meccanismi di assuefazione, e molto altro, è uscito un libro, il primo che studia il fenomeno con la lente accademica della semiotica, dei media studies e della sociolinguistica. ”Tiktok. Capire le dinamiche della comunicazione ipersocial”, edito da Hoepli e curato da Gabriele Marino e Bruno Surace è un po’ un Tiktok for dummies highbrow, un Tiktok spiegato bene con un inquadramento teorico invece che funzionale. Tiktok “come un hamburger del fast food, è allo stesso tempo un agglomerato potente di istanze culturali, ma così ben ordito da far sì che in pochi se ne avvedano, e in molti si limitino a consumarlo avidamente”, dicono i curatori. In uno dei saggi del libro, la semiologa Bianca Terracciano spiega come Tiktok segni il passaggio dall’immagine al video, da quelle belle foto di Instagram di tramonti alla ripresa amatoriale senza necessità di estetizzare. Perché il video, scrive, “serve a rappresentare al meglio la forma di vita di riferimento, a costruire un legame con la comunità di follower”, dato che hanno “sempre una struttura narrativa, seppur frammentata”. Più avanti il tema cardine: ”E poi, ingrediente necessario per l’assuefazione, è la brevità. Come quel meme che dice: “Non ho tempo per un film di un’ora e mezzo, allora mi guardo sette puntate di The Office una dietro l’altra”, siamo attratti dall’illusoria stringatezza dei contenuti, che però accumulati uno dietro l’altro, come le ciliegie, riempiono ore e ore. Ecco l’infinite scrolling, buco nero della socialità sui mezzi pubblici”. Questo, a mio avviso, non solo crea questa storia dell’infinità scorrere da un filmatino all’altro, ma nei giovani fa crollare la soglia di attenzione a una manciata di secondi e questo pesa anche sull’apprendimento scolastico. Così conclude Silvano: ”Ma come nota la film scholar Angela Maiello, l’unicità del social cinese sta anche nell’assenza di una cornice intorno ai video, non c’è la mediazione di accesso ai contenuti data dai profili dei singoli come invece succede negli altri social. In pratica Tiktok “elimina quei segni che avevano caratterizzato prima la nascita del Web come ipertesto, e poi del Web 2.0 quale luogo di partecipazione orizzontale”. Un flusso infinito, nudo, continuo e immediato, che attira utenti per oltre un miliardo e sei, più degli abitanti dell’india, e altrettante alzate di sopracciglia da chi non lo usa”. Attorno a chi ne diventa dipendente si crea il nulla: la vita dentro uno schermo.