La crisi demografica in atto in quasi tutto l’Occidente non colpisce più di tanto, come se il problema fosse rinviabile, benché incomba già e in modo pressoché irreversibile. Personalmente ho messo i piedi nel piatto, quando ho insistito sulla necessità - ad uso futuro delle scuole con meno giovani e dell’invecchiamento della popolazione - di uno studio su cosa capiterà nei prossimi decenni in Valle d’Aosta a cura del demografo Alessandro Rosina. Ne emerge uno scenario inquietante e, evitando di ripetere molti dati ormai purtroppo noti con le culle sempre più vuote e i cimiteri sempre più affollati, valga questa frase dello studio che suona come inquietante: “Senza una urgente inversione di tendenza della natalità e un rafforzamento anche nel breve e medio periodo della popolazione in età attiva, il rischio è quello di scivolare in una spirale negativa che porta ad un continuo aumento degli squilibri strutturali e indebolisce le possibilità di sviluppo economico e sostenibilità sociale”. Ora su ”La Lettura” del Corriere della Sera compare un articolo di un importante statistico. Si tratta - prendo dal Web una sua biografia - di Roberto Volpi: ”Volpi ha diretto uffici pubblici di statistica, progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, diretto il Gruppo tecnico di programmazione che ha redatto il Piano strategico della città di Pisa. Tra i suoi libri ricordiamo Storia della popolazione italiana dall’Unità a oggi (La Nuova Italia, 1989), C’erano una volta i bambini (La Nuova Italia, 1998), La fine della famiglia (Mondadori, 2007), Il sesso spuntato (Lindau, 2012) e Gli ultimi Italiani (Solferino, 2022)”. Questa la sintesi proposta nella pagina del giornale: ”Nel nostro Paese 278 comuni hanno meno di 10 abitanti per chilometro quadrato . Sono situati in montagna, ai confini esterni o lungo la catena degli Appennini. La superficie totale equivale quasi a quella del Lazio, i residenti sono poco più di 100 mila. La loro sparizione, che appare inevitabile, presenta problemi notevoli, perché si tratta di un presidio importante del territorio, soprattutto dal punto di vista ambientale. La retorica del ritorno ai piccoli centri purtroppo non ha fondamento”. Messa così e pensando a certe riflessioni in corso anche da noi cresce una legittima preoccupazione. L’autore, con ausilio di apposte tabelle, che campeggiano in pagina, si occupa dello spopolamento delle “terre estreme”: ”Non ci sono «ma» che tengano, le tendenze demografiche italiane questo dicono: ch’è in atto un sistematico spopolamento delle terre estreme, che sono. ”i comuni con meno di 10 abitanti a chilometro quadrato (kmq) in un Paese, il nostro, con 195 abitanti a kmq. Comuni, ed ecco l’altro aspetto, così estremi che sembrano messi lì dove stanno apposta per presidiare confini e frontiere. Ma eccone una prima, essenziale sintesi statistica. Secondo gli ultimi dati del 31 dicembre 2022 i comuni italiani con meno di 10 abitanti a kmq, i più spopolati d’Italia, sono 278, misurano complessivamente 16.783 kmq (più della Campania e poco meno del Lazio), per un totale di 102.749 abitanti. Hanno una superficie media di 60,4 kmq e una popolazione media di 370 abitanti. Sono dunque al tempo stesso comuni molto estesi territorialmente, avendo una superfice media del 60 per cento superiore alla superficie media dei comuni italiani, e molto piccoli demograficamente: ci vogliono venti di questi comuni per eguagliare la popolazione media dei comuni italiani (circa 7.400 abitanti)”. Dove sono? Così l’autore: ”Sono comuni di montagna, spesso di alta montagna. E non è così significativa la loro altezza media calcolata in base alla sede del municipio, che si aggira attorno ai 900 metri sul livello del mare. I municipi si trovano infatti nei pur minuscoli centri abitati e in posizioni più comode e agibili, cosicché complessivamente i residenti sono situati non di poco a una ben maggiore altezza. Nell’insieme di questi comuni la densità abitativa è di appena 6,1 abitanti a kmq. Per dare un’idea: se l’Italia avesse quella stessa densità, la sua popolazione sarebbe non di 59 ma di 1,8 milioni di abitanti: Lilliput, in pratica”. Preciso che da tabella la media altimetrica dei Comuni valdostani interessati, che sono 15 ma non si esplorano i nomi ma penso che non sia difficile per noi - dati alla mano - identificarli, è di 1428 metri. Poi Volpi spiega perché bisogna occuparsene: ”Primo motivo: questi 278 comuni hanno una caratteristica che li rende geograficamente, ambientalmente ed ecologicamente, e molti di loro in qualche modo pure politicamente, importanti: presidiano in certo senso il territorio italiano — addirittura la sua parte più delicata, quella più esposta allo sconquasso dei fenomeni naturali. Lo presidiano innanzi tutto ai suoi confini continentali, e dunque lungo l’intero arco alpino, dalla Liguria al Friuli-Venezia Giulia, che provvede a separarci da Francia, Svizzera, Austria e Slovenia; e poi, ma a questo riguardo il discorso si fa del tutto eco-ambientale, lungo la dorsale appenninica dall’Emilia alla Calabria, e fino ai rilievi montuosi interni della Sardegna. Secondo motivo: perdono abitanti a una velocità che ne lascia intravvedere la sparizione. Un finale già scritto. Inevitabile. A parte qualche comune di questi 278 che si salverà, la maggioranza, tra il 60 e il 70 per cento, tra mezzo secolo non esisterà letteralmente più”. Eccoci più avanti agli interrogativi: “Cosa comporterà questo spopolamento radicale? Riusciremo comunque a preservare certi equilibri ambientali e geografici? Non si rifletterà la loro desertificazione in una più accentuata fragilità del territorio italiano, che diventerà così ancora più esposto a eventi estremi? Si consideri, peraltro, che se pure il clima si stabilizzasse e normalizzasse, il discorso che riguarda quei comuni e quelle aree non sarebbe poi tanto diverso: giacché quanti quei luoghi abitano, e che per il fatto stesso di abitarvi li difendono e proteggono, si andrebbero comunque estinguendo. Quei 278 comuni diventano così la spia di uno spopolamento del Paese che procede in modo tutt’altro che omogeneo sul territorio nazionale, che non fa anzi che aggravare squilibri, diversità, contraddizioni che percorrono la popolazione italiana, determinando autentiche linee di faglia capaci di allontanare intere aree e regioni le une dalle altre, e di metterle in contrasto se non perfino in contrapposizione le une con le altre”. E ancora più avanti lo statistico chiarisce quando spariranno le comunità con questo trend, quando cita i “dati che riguardano la stima della sopravvivenza in anni: ch’è di 96 anni per il totale dei comuni delle Alpi, e di 69 anni, quasi un terzo in meno, per i comuni degli Appennini e altri rilievi. E infine ribadita dal fatto che la sopravvivenza ha le sue vette decisamente più alte nei comuni del Trentino-Alto Adige (ben 228 anni) e della Val d’Aosta (168 anni) e quelle più basse nelle regioni del Sud, a cominciare dalla Calabria (appena 40 anni). Guardando poi a questi ultimi dati si capisce bene, ed è questa la seconda considerazione, come, per quanto spopolati al massimo grado, alcuni comuni di questa fascia che si trovano segnatamente in Piemonte, Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige riescano a non farsi risucchiare nella spirale demografica dell’estinzione coltivando una qualche vocazione turistica — pur se le grandi mete del turismo tanto estivo che invernale si concentrano in comuni di altre e superiori densità abitative, non così spopolati come quelli di questa fascia”. Il finale è a tinte scure: ”Ho anticipato che non c’è salvezza per questa fascia di comuni. Alcuni, pochi, si salveranno, è vero, ma la grande maggioranza soccomberà, e anche in tempi assai ravvicinati. E non c’è soltanto la perdita di abitanti, che abbiamo visto essere assai rapida, a contare. C’è anche un altro fattore sul quale poco ci siamo soffermati, ma che conta moltissimo: le minime dimensioni demografiche. 43 di questi 278 comuni non arrivano a 100 abitanti; 119, poco meno della metà, non arrivano a 200 abitanti. Appena 17 di questi comuni superano, di poco, i mille abitanti, forse la dimensione minima per poter sperare in una qualche vitalità demografica, che evidentemente non può esserci quando la popolazione non arriva neppure a 100 o 200 abitanti. Qui, in comuni a tal punto poveri di abitanti, praticamente non ci sono nascite, la popolazione femminile in età feconda è ridottissima, l’età media molto alta, così come l’indice di vecchiaia, i rari, rarissimi giovani scendono nelle pianure, vanno ad abitare le città. Impossibile sperare in una ripresa, in una salvezza, in queste condizioni. La retorica dei piccoli comuni che vivrebbero una nuova fioritura per l’abbandono della grande città da parte di tanti che cercano lidi più tranquilli e riposanti, specialmente ora che con l’accoppiata pc-internet si può lavorare anche da remoto, non è che retorica, appunto. La realtà è che il movimento che dall’alto scende in basso è assai più appetibile e consistente di quello contrario che dal basso sale in alto. Una realtà con la quale fare i conti, non foss’altro per vedere di prendere qualche — peggio che difficile — contromisura”. Personalmente non sono così pessimista, ma certo le contromisure sono necessarie e condivido che non saranno affatto facili.