Credo che l’espressione inglese “sense of humour”, da quel che ho capito, ha una profondità maggiore della sua semplice traduzione in italiano con “senso dell’umorismo”. Penso che sia un modo di essere, un “esprit”, come si direbbe in francese, nell’esprimere un’innata vivacità. Immagino di avere ereditato questo aspetto caratteriale da mio papà e dai suoi fratelli e da una delle sue sorelle e dunque dovrebbe essere qualcosa di impresso, malgré moi. Lo dico perché ricordo quegli incontri fra di loro in cui aleggiava questo umorismo fatto di battute, racconti scherzosi, reciproche prese in giro. Se sorridere, come dice chi studia questo aspetto dell’animo umano, fa bene, allora loro ne erano bravi interpreti e me lo hanno trasmesso e io me lo tengo stretto. A me è sempre piaciuto far sorridere e pure ridere. Un po’ per questo indubbio aspetto familiare, un po’ per una vena esibizionistica che forse è un modo per nascondere - quando lo dico non ci crede nessuno - una vena di timidezza. Ricordo di aver capito sin da ragazzino, quando ci si trovava in una nuova compagnia, come per rompere il ghiaccio e evitare gli imbarazzi l’ideale era scherzare. Mio papà lo faceva con un uso sagace delle barzellette che non so da dove pigliasse, mentre a me piace la battuta istantanea e giocare con gli altri a quella invenzione giocosa tra amici che sono i tormentoni, cioè quelle battute ripetute in modo ossessivo che cementano le compagnie. A cosa serva l’umorismo non si sa bene. Su questi tempi verrebbe da ricordare cosa diceva Amos Oz scrittore e saggista israeliano che ha scritto molto sui rapporti arabo-israeliani: “Non ho mai visto un fanatico religioso avere senso dell’umorismo. Né una persona con senso dell’umorismo diventare un fanatico”. Ho sempre provato ammirazione per gli ebrei proprio per l’autoironia che sa trasformare anche le disgrazie in un motto di spirito, anche se anche loro i loro fanatici ce li hanno… Da bambino, se ci penso, ridevo grazie a mio papà ogni volta che montava nel salotto buono l’apparecchio per vedere i filmini e scorrevano senza suono cartoni animati e l’impagabile Charlot. Proprio Charlie Chaplin - con il suo ridere per pensare attraverso il suo goffo e lunare personaggio - diceva: “Attraverso l’umorismo noi vediamo in ciò che sembra razionale, l’irrazionale; in ciò che sembra importante, il non importante”. Ecco perché, quando parlo in pubblico anche di argomenti importanti, credo non solo per tecnica oratoria cerco di strappare un sorriso, perché alleggerisce e riporta viva l’attenzione. Ci pensavo al sorriso come elemento per mettersi al centro, quando da papà imbranato avevo i miei figli neonati in braccio che sapevano conquistarti con quei loro sorrisi che ti liquefano e riempiono il cuore. Ha scritto Marc Levy: “Se tutti lo facessero anche solo una volta al giorno, regalare un sorriso, immagina che incredibile contagio di buon umore si espanderebbe sulla terra”. Invece, purtroppo, è pieno di musoni con l’espressione di uno Smile corrucciato e di persone che si prendono troppo sul serio. Oggi, però, i grandi nemici dell’umorismo - e lo dicono tanti comici - sono gli ayatollah del politicamente corretto, pronti a bacchettarti se scherzi o ironizzi su molti argomenti, diventati tabù perché avvolti da una sacralità, che ricorda il celebre motto “scherza con i fanti, ma lascia stare i Santi”. Non sopporto questi censori che trasformano una burla o un battuta in un reato. Che imparino a ridere di tutto, compresi sé stessi.