Che flash dal passato che ogni tanto ritornano nella vita! Sono stato invitato ad una festa di compleanno a Telecupole. Per chi ha vissuto l’epoca pionieristica della liberalizzazione dell’etere, con la fine del monopolio radiotelevisivo della Rai, questa tv piemontese fu sin da subito un caposaldo. Era nata nel 1979, all’inizio degli anni ruggenti delle “private”, in una grande costruzione di cemento, davvero a forma di cupola, a Cavallermaggiore, a metà strada fra Torino e Cuneo. L’ idea di fondare una emittente con forte indirizzo regionale venne a Pietro Maria Toselli, che ancora oggi ho visto in cabina di regia con l’entusiasmo del precursore. Certo le condizioni di quell’epoca sono cambiate e l’offerta televisiva si è moltiplicata a dismisura. Personalmente credo che esistano ancora spazi per la televisione locale, ma mantenere gli equilibri finanziari non è semplice, così come seguire l’evoluzione tecnologica. Telecupole ha inventato e pratica ancora oggi una formula singolare: sotto la cupola c’è infatti uno studio, che è anche pista da ballo, che in certe occasioni diventa anche un ristorante. Si può definire una grande discoteca o, senza alcuna accezione negativa, una balera (parola di origine romanza che viene da ballo). Ebbene, una serata in quel luogo, con uno spettacolo in favore di telecamere (interessante l’uso di telecamere senza cameraman e solo un operatore con telecamera a mano si aggirava nella sala), è stato come uno studio sociologico o persino antropologico. Il pubblico che ho visto era mediamente di età elevata, direi fra i settanta e gli ottant’anni, che era lì per una concezione precisa dello stare assieme. Mi riferisco al ballo, antica pratica umana, che accomuna tutte le civiltà. E mi colpiva in queste persone di una certa età la trasformazione in pista, dove come d’improvviso il corpo riassume una sua levità e i più bravi smentiscono nei meccanismi acquisiti il peso della vecchiaia con quella ricerca spesso di un’eleganza formale nel vestire, di cui troppo spesso si è persa la traccia. Nel locale di Cavallermaggiore a fare la parte del leone era il liscio. Un ballo da sala nato in Romagna, quindi tipicamente italiano, tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Il suo nome è dovuto al fatto che i ballerini usano "scivolare" con i piedi con quelle movenze armoniose che tutti noi conosciamo. Io non so ballarlo (e quando l’ho fatto la mia goffaggine era preclara), ma ricordo locali storici valdostani dove sono stato, come il celebre Divina alle porte di Aosta raso al suolo anni fa o i balli al palchetto della mia giovinezza o ancora certi miei reportage tv sulle scuole di ballo al CRAL Cogne, dove un mondo ruotava attorno al ballo in quei locali che rappresentavano una realtà che non era solo quella dei dipendenti della grande fabbrica siderurgica. Quel che colpisce è una frattura generazionale e cioè di come il liscio sia stato in buona parte già sostituito nella mia generazione e ancor di più da quelle successive dalla musica pop nelle sue diverse varianti e da balli meno codificati e più liberi. Ma per i giovani e giovanissimi il fenomeno vero è la riduzione al lumicino delle discoteche, luogo cult solo sino a pochi decenni fa. Questo cambia in profondità i comportamenti, anche se in realtà - lo si vede in molte occasioni - l’aspetto gioioso e liberatorio del ballo si mantiene tutto intatto. Una contraddizione difficile da capire.