Le tragiche circostanze della morte di Giulia Cecchettin hanno acceso un dibattito finalmente forte e vedremo quanto episodico sulla violenza contro le donne. Non mi soffermerò sulle questioni linguistiche. Trovo, però, che il termine “maschilismo” sia più immediato di quella parola “patriarcato” che mi convince poco. Restano le morti che punteggiano il calendario e che mostrano un fenomeno reale e grave. Chi di fronte a certe vicende - è capitato purtroppo anche nel Consiglio regionale valdostano - si arrampica su certi sofismi fuori luogo sembra vivere chissà dove. La realtà è che non saranno gli inasprimenti delle pene come sola misura a far entrare nella zucca di certi potenziali aggressori la gravità delle violenze contro le donne. Come prima misura si è dato alla scuola un ruolo capitale e, per carità, ci sta che questo avvenga, ma resto convinto che nell’educazione familiare si giochi la prima partita. Così come una seconda urgenza è rispondere meglio sul terreno delle malattie mentali - un tempo risolto in gran parte con la segregazione dei “matti” in terribili manicomi - ben espresso in termini generali da una lettera firmata “due genitori disperati” sul Corriere, che riporto. “Scrivo questa lettera perché sto cercando aiuto. Io e mia moglie stiamo vivendo un incubo da tre anni, da quando nostro figlio maggiorenne all’improvviso ha deciso di interrompere gli studi all’ultimo anno, per farsi la sua strada nel campo dell’arte a Milano (noi abitiamo in Veneto). Si è trasferito con il nostro aiuto per trovare un monolocale, sperando, come ci aveva promesso, che avrebbe finito gli studi online e avrebbe trovato un lavoro per mantenersi. Gli studi non li ha completati, non è stato in grado perché stava male e non ce ne siamo purtroppo accorti; ha iniziato a fare anche due lavori al giorno per potersi mantenere, ma con la malattia che stava esplodendo non riusciva a conservarli. Mio figlio è affetto da una patologia psichica dalla quale non si può guarire, si può solo curare se si accetta la malattia e quindi si decide di curarsi per poter avere una vita dignitosa. Ma, grazie alla legge vigente, «diritto dell’individuo di decidere se curarsi», una persona maggiorenne non può essere obbligata a farlo, nemmeno per patologie mentali. Esiste solo il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, mio figlio ne ha fatti già due), ma quando la terapia fa effetto se il paziente decide di firmare i medici sono obbligati a dimetterlo. E poi si ricomincia all’infinito. Noi abbiamo il cuore spezzato, non possiamo più averlo a casa se non si è curato (e poi deve continuare a curarsi), abbiamo per la prima volta paura anche per la nostra incolumità. Tutto ciò mi fa una tristezza unica: i nostri genitori ci hanno consegnato un mondo migliore di quello che stiamo consegnando ai nostri figli. Siamo una generazione che ha fallito con i figli (non tutti per fortuna), io sicuramente perché non sono riuscito a salvare mio figlio quando ero in tempo, e non sono stato in grado di leggere i segnali che mi mandava”. Altro filone quello del direttore di Repubblica Maurizio Molinari che segnala come sia alta la percentuale dei giovani che uccidono le donne: “Non c’è alcun dubbio sul fatto che i femminicidi nascono dall’assenza di rispetto nei confronti delle donne - e ciò attraversa ogni categoria sociale, anagrafica e geografica - ma è doveroso porre l’interrogativo sul perché tale aberrazione abbia contagiato i più giovani fra noi: coloro che dovrebbero essere più consapevoli dell’importanza dei diritti e dei doveri che garantiscono sicurezza e prosperità nelle nazioni democratiche. E’ una domanda lacerante perché chiama in causa tutti noi: non solo i giovani violenti ma anche i loro genitori, insegnanti, amici, compagni di sport, gite o qualsiasi altra attività. Come è possibile che il delitto più antico e feroce - il femminicidio - sia oggi commesso da un nativo digitale come se si trattasse di un barbaro dell’antichità? Quale è il vettore attraverso cui questa versione ancestrale del disprezzo per la vita ha contagiato i più giovani fra noi nel bel mezzo dell’avveniristico XXI secolo?“. Molinari propone una tesi: “Credo che la risposta debba venire da quegli studi che indicano come nelle democrazie avanzate la tipologia più comune di aggressione del prossimo fra i giovani è il bullismo digitale. Ad esempio, in Italia nel 2020 ben il 45% dei giovani fra i 13 ed i 23 anni hanno affermato di aver subito atti di cyber bullismo. La possibilità di usare il web, i social network, per aggredire amici e coetanei è una modalità di violenza che dilaga fra i giovanissimi, li fa crescere nella dipendenza da immagini offensive ed aggressive, e consente di esercitare il Male contro chiunque dal segreto del proprio schermo, della propria camera, trasformando la solitudine in un’arma tanto spietata quanto creativa. Una delle declinazioni più comuni del bullismo digitale sono le aggressioni sessuali, basate su immagini oscene e frasi aberranti, e tanto più questa violenza diventa abituale tanto più si cresce in un habitat suddiviso fra chi commette e chi subisce tali aggressioni. Ma non è tutto perché ad alimentare il bullismo, che crescendo si può trasformare in intolleranza e violenza fisica, è la carenza di conoscenza sempre più diffusa fra chi cerca nello schermo digitale la risposta ad ogni domanda. Senza più dedicare tempo e concentrazione a leggere libri, guardare film, ascoltare concerti o semplicemente assistere ad eventi sociali, basati sull’interazione e sulla creatività umana. Per il nativo digitale il pericolo più grande è crescere, maturare, nella convinzione che il tempo è composto da frazioni istantanee, destinate ad essere consumate all’unico fine di provare emozioni sempre più intense, drammatiche, fino a sconfinare nella violenza”. È una ricostruzione su cui riflettere, che implica il tema importante dell’educazione al digitale e alla sua importanza. Su questo bisognerà lavorare sempre più. P.S.: nel frattempo CasaPound all’Arco di Augusto di Aosta espone uno striscione («Ma quale patriarcato, questo è il vostro uomo rieducato») che mostra la pochezza dei neofascisti e la loro ignoranza squadrista