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25 mag 2024

A proposito di vulcani

di Luciano Caveri

Quando sono stato a Napoli di recente, mi veniva in mente di quando la Lega si sentiva partito duro e puro del Nord e spuntavano scritte grottesche tipo “Forza Vesuvio!”. Sembra di vivere in un’altra era, vedendo in azione gente come il Generale Vannacci, che è tutto patriottismo e bandierone tricolore…

Quella recente visita nella capitale della Campania è stata interessante e fa riflettere sui rischi dei vulcani (parola che viene dal Dio del fuoco, Vulcanus), che accompagnano la sua antica storia.

Il caso di Pompei, che ho visitato in lungo e in largo con una guida che ne spiegava ogni minimo particolare, è l’esempio più eclatante dei danni che l’eruzione dei vulcani può causare. Si resta basiti nel percorrere le vie di quella città romana, rimasta sepolta dalle ceneri, che è stata un insieme prezioso per gli archeologi e per altri esperti per capire la vita e le abitudini all’epoca dell’eruzione del Vesuvio. Le sagome dei cadaveri di chi venne ucciso dai gas sono come marionette umane che arrivano da un passato remoto e colpiscono per la loro drammaticità espressiva, dando più di altro il senso della tragedia.

Mi era capitato di scoprire vicende analoghe sia per lettore storiche che per esperienze durante alcune vacanze in giro in vari posti, che fossi a Stromboli, alle pendici dell’Etna, in isole caraibiche con vulcani attivi o in Paesi orientali colpiti e minacciati dai vulcani.

Anche le cronache valdostane, più o meno un secolo fa, registrarono con sconcerto le conseguenze, grossomodo fra il 1808 e il 1838, di almeno cinque eruzioni catastrofiche nei Tropici. In quei decenni, le temperature tra aprile e settembre scesero di 0,65°C rispetto ai trent’anni precedenti: una differenza nient’affatto insignificante e legata in prevalenza all’intensa attività vulcanica. I ghiacciai alpini si espansero, i monsoni in India, Australia e Africa si indebolirono e seguirono tempi di siccità, comprovati dall’abbassamento del livello del Nilo e dei laghi africani. Dopo le eruzioni, e a causa dell’indebolimento del monsone africano, il ciclone atlantico‐europeo si spostò verso sud.

Sul suolo valdostano la più grave conseguenza derivò dall’eruzione del 1815 del Tambora, nell’isola indonesiana di Sumbawa, che eruttò dando luogo alla più violenta esplosione vulcanica dell’epoca moderna. L’inverno fu gelido e tempestoso e le cose non migliorarono con l’arrivo della primavera. Non per niente, il 1816 è passato alla storia come “l’anno senza estate” con tutte le conseguenze per un mondo rurale come quello dell’epoca. Quell’anno, il poeta inglese Percy Bysshe Shelley e la sua seconda moglie Mary trascorsero l’estate in Svizzera, a due passi dalla Valle d’Aosta, in compagnia del poeta Lord Byron, e salirono in montagna sotto “una violenta tempesta di pioggia e vento”.

Vien da pensare come esista questa indeterminatezza sul pessimo riscaldamento globale, ma non è questo il tema. Quel che colpisce nel caso di Napoli è l’assoluta mancanza di attenzione alla pericolosità dei territori né alle pendici del Vesuvio né nella zona dei Campi Flegrei con sviluppi edilizi clamorosi e spesso abusivi. Così come incuriosiscono i piani di evacuazione con un sistema stradale che appare del tutto inefficiente in caso di una fuga rapida dai luoghi pericolosi. Anche la Valle d’Aosta c’entra qualcosa, visto che una piccola parte di popolazione delle due località campane a rischio dovrebbe essere, in caso di eruzione, evacuato anche nella nostra Regione.

Scenari apocalittici cui è meglio non pensare.