Leggo che al Festival della Mente di Sarzana - che mi pare a naso più impegnativo del Festival di Sanremo - si parlerà della gratitudine.
Trovo che il tema sia ambizioso e nel contempo interessante. Mi sembra purtroppo un sentimento per molti démodé e questo non per sminuirne l’altissimo valore, riassumibile in quella parolina che i nostri genitori ci insegnavano a dire, spesso insistendo perché ci entrasse nella zucca, e cioè “grazie!”.
Cominciamo, allora, dalle parole che sono sempre utili per un loro uso consapevole.
Secondo Treccani la gratitùdine [dal latino tardo gratitudo -dĭnis, der. di gratus «grato, riconoscente»] è una disposizione d’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare (è sinonimo di riconoscenza, ma può indicare un sentimento più intimo e cordiale)”.
Vale una citazione classica:: La gratitudine non è solo la più grande delle virt
ù, ma la madre di tutte le altre. (Marco Tullio Cicerone)”. Il sintetico “grazie“ è una strada parallela. L’etimologia lo mostra: dal latino gratia 'l'esser gradito; favore; riconoscenza', derivazione di gratus 'gradito, ben accetto'. Con una spiegazione ulteriore: “Il latino grátia è stato trasmesso in primo luogo dalla tradizione cristiana nel significato di 'favore divino' e la locuzione grazie come espressione di riconoscenza è per ellissi da rendere grazie, dal latino gratias agere, formula costitutiva del sacramento dell'Eucaristia; di conseguenza la disgrazia corrisponde alla perdita del favo e divino, alla condizione di peccato e di miseria”.
Come sono belle le espressioni che arrivano dal passato. Sul sito unaparolaalgiorno ci sono bei pensieri ben riassunti che condivido sul “grazie”: ”Una mole di qualità e sentimenti positivi assolutamente fuori dal comune si concentra in questa parola assolutamente comunissima. Pronunciarla, anche sola, ha l’effetto proprio di sferrarla completamente in tutta la sua massa, svincolata, liberandola in ogni sua articolazione. Quando si pronuncia un grazie, davanti anche al gesto più minuto, perfino anche solo dinanzi all’intenzione, vi si appone un inestimabile marchio di valore, che nobilita oggetto e soggetto, un marchio intrecciato, complesso, consapevole - simbolo, segno e vessillo insieme di favore amicale, di bellezza e piacere, di gentile e autentica riconoscenza, insomma di quella gratitudine sentita che è propria di chi sa l’intima statura delle cose, l’altezza vertiginosa a cui quel valore, riconosciuto, si eleva. Ma in fondo è solo un “grazie”, no?”.
Ha ragione il poeta Pablo Neruda: “Una sola parola, logora, ma che brilla come una vecchia moneta: “Grazie!”. Credo di essere una persona che ringrazia abbastanza e non in modo formale o peggio ancora viscido, come talvolta capita con persone che lo fanno senza sincerità. Nel percorso della vita ho persone che hanno inciso profondamente. Lo sono stati di sicuro nelle tappe di crescita i miei genitori, mio fratello, i miei familiari, la mia famiglia allargata e tutti quelli che mi hanno aiutato in certi passaggi senza i quali non sarei quello che sono con i pregi e i difetti che ciascuno ha.
La gratitudine è una moneta preziosa e con alcuni sono davvero in debito, con altri pari e patta, con alcuni la gratitudine si è - da parte loro - trasformata nella triste ingratitudine. Io spero di non aver mai fatto lo stesso e - pensando ad alcuni che hanno attraversato la mia esistenza - se l’ho fatto, talvolta spezzando un legame importante, ho avuto le mie buone ragioni.
Non sono indulgente con me stesso, ma ho capito come anche i sentimenti, come tutto il resto, possono cambiare.