Parto da un articolo del quotidiano Alto Adige, che cita alcune località della Provincia di Bolzano letteralmente assaltate dai turisti. Esempio di overtourism, cioè un pigia pigia eccessivo di persone in pochi spazi che vengono letteralmente consumati, creando disagi ai residenti e agli stessi turisti costretti alla calca.
Apro parentesi, prima di tornare in montagna. Giorni fa, mi sono trovato ad attraversare la piazzetta di fronte alla Fontana di Trevi, provando disgusto per una marea umana accalcata di fronte ad un capolavoro che finisce per non essere goduto. Ma quello che impressionava è che quel che importava agli astanti era scattarsi una foto, per dire anche in diretta social: io c’ero.
Così scrive il giornale già citato all’inizio di certe tappe montane ormai intasate: “Obiettivo? Fare e farsi una foto. Spesso poco importa della natura. L'importante è immortalare sé stessi ed i propri cari. E poi via, verso un'altra meta. Qualche volta e neanche poco, con abbigliamenti non consoni all'altitudine. (…) Il sovraffollamento turistico (overtourism) è impattante, ma come ci sono zone di montagna con più turisti che piante, ve ne sono altre dove vige lo spopolamento e l'abbandono.
Le piattaforme social che favoriscono la caccia all'immagine perfetta partecipano al turismo «mordi e fuggi»”. Trovo un interessante caso di scuola sul numero ferragostano di Internazionale, stimolante (con il racconto degli 8000 con alpinisti trascinati sulle vette) e a tratti divertente (la terribile crociera sulla nave più grande del mondo), in veste monografica sul turismo.
La premessa è nell’editorale di Giovanni De Mauro sul punto evocato: “ Il sovraffollamento turistico, però, non va confuso con il turismo, e risponde a tre criteri: 1) quando l’eccesso di turismo pregiudica la conservazione di un’opera d’arte o di un territorio; 2) quando il numero di turisti degrada la qualità della visita stessa; 3) quando ci sono manifestazioni di rifiuto delle popolazioni locali”.
Ma le foto ci mettono lo zampino e il caso raccontato si svolge in Island a tre ore e mezza da Reykjavík. Scrive Paige McClanahan su Time: “Pochi visitatori raggiungevano quell’area che, oltre a essere un pascolo eccellente per le pecore, è attraversata da un canyon stretto e scosceso che sembra uscito dal Signore degli anelli.Tutto è cambiato intorno al 2013, quando alcuni intrepidi viaggiatori hanno cominciato a pubblicare le foto del canyon sui social media, a volte includendo la geolocalizzazione. Improvvisamente chiunque avesse a disposizione una connessione internet poteva seguire le indicazioni per raggiungere quella splendida località fuori mano”.
Ma anche un’altra variante ci ha messo lo zampino: “Nel 2015 Justin Bieber è arrivato lì con la sua troupe per girare il video di I’ll show you. “My life is a movie and everyone’s watchin’” (La mia vita è un film e tutti lo guardano) canta Bieber. Il video ha raggiunto più di mezzo miliardo di visualizzazioni su YouTube.In poco tempo il numero di visitatori del canyon è aumentato da tremila a trecentomila all’anno, come mi ha detto un dipendente dell’agenzia per l’ambiente islandese”.
Ma il giornalista apre ad un discorso generale: ”In un sondaggio del 2019 quasi la metà degli intervistati ha detto di cercare ispirazione per i viaggi dagli influencer, mentre l’86 per cento sceglie la destinazione in base ai contenuti condivisi da amici, familiari e colleghi. Tra i giovani della generazione Z la quota sale al 92 per cento. In fin dei conti, le foto delle nostre vacanze interessano davvero a qualcuno, almeno quando appaiono sui social media. In un sondaggio del 2017 condotto nel Regno Unito nella fascia d’età 18-30 anni, il 40 per cento degli intervistati considerava “l’instagrammabilità” di un posto il primo criterio per decidere dove andare in vacanza.L’idea di considerare una destinazione di viaggio come un luogo da collezionare sul proprio profilo Instagram riporta alla mente una critica spesso rivolta alla letteratura di viaggio, cioè di consolidare i cliché coloniali o, peggio, di crearne di nuovi. Se da una parte i social media hanno creato un’esplosione di nuovi e diversi “scrittori e scrittrici di viaggio”, dall’altra hanno spinto tanti a vagare per il globo in cerca di persone e panorami da sfruttare”.
Sul “che fare” conclude Scrive Paige McClanahan: “Innanzitutto potremmo mettere in discussione il valore di ciò che vediamo su queste piattaforme, cercando di essere più attenti ai significati e alle implicazioni nascosti sotto la superficie delle immagini. E quando creiamo un post, al centro potremmo mettere qualcosa o qualcuno di diverso da noi. Potremmo condividere contenuti usando il tipo di prospettive o di storie che ci piacerebbe trovare nei post di altri che parlano di noi o della nostra città. E ricordare che i social ci danno un grande potere sulle persone che ci seguono, anche se sono semplicemente compagni del liceo o cugine di secondo grado. Le persone osservano quello che facciamo e questo influenza la loro visione del mondo”.
In sintesi: modus in rebus…