Leggo con curiosità su La Stampa domenicale nella edizione valdostana, ormai da molte settimane, un’intervista - che pare abbia un format in ogni edizione locale del quotidiano torinese - a persone le più varie che, con rare eccezioni, si esprimono in maniera molto critica dapprima con colloqui dedicati più sulla città di Aosta e ora allargandosi alla Regione tutta intera. Un esercizio democratico di certo utile, anche se noto spesso qualche eccesso polemico e anche in talune testimonianze scarsa conoscenza di questioni nodali che vengono liquidate con faciloneria.
Viene in mente in qualche esternazione la famosa logica che si esprimeva in una frase diventata proverbiale del celebre ciclista Gino Bartali, un concentrato tra vis polemica ed astuzia contadina, che andava ripetendo, “gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”.
Per carità, è un’onda critica che è diventata ormai da tempo mareggiata sui Social e sul Web. Guardate la pubblicazione di una notizia su un sito informativo, laddove si può commentare e scoprirete una frotta di persone che si lamentano, attaccano, spesso insultano.
Su scala ben più ampia il fenomeno incide sulla stessa informazione. Osserva, infatti, in senso generalissimo Mauro Bonazzi sulla sua rubrica su Sette: ”Ogni mattina, la lettura dei giornali consiste in una lunga teoria di notizie deprimenti: guerre, crisi politiche o economiche, episodi di malcostume vario, il cambiamento climatico, sempre più pericoloso e sempre meno considerato… non sembra messo benissimo il mondo, verrebbe da osservare”.
Interessante la considerazione che segue: ”E se invece fosse un errore di prospettiva? Così la pensa uno dei più autorevoli pensatori del nostro tempo, Steven Pinker, professore ad Harvard. Non ha tutti i torti. In effetti, un errore di prospettiva c’è: quando analizziamo la realtà, lo facciamo mettendo noi al centro di tutto, facendo delle nostre esperienze il punto di riferimento a partire da cui giudicare tutto il resto. E perché? Onestamente, non sembra una scelta ragionevole. E infatti, se adottiamo altre prospettive, non appiattite sul nostro presente immediato, il quadro che emerge è ben diverso”.
Mettiamoci da questa parte della barricata e io lo faccio spesso, osservando dove vivo - la pur piccola Valle d’Aosta - conoscendo per le esperienze ormai accumulate, il gusto per la storia e un ruolo politico ormai di lungo corso. Senza negare tutte le cose che non vanno e senza pensare di operare chissà quale censura su inadempienze, errori e incapacità, resta un punto che se lo si dimentica, allora si è in malafede.
Scrive Bonazzi naturalmente in senso globale: ”Parlare di progresso è al giorno d’oggi quasi un tabù. Ma se analizziamo i dati di cui disponiamo in una prospettiva storica, quello che emerge è proprio questo, che stiamo progredendo. Non trionfalmente o linearmente: a strappi, con movimenti in avanti e a volte indietro. Ma così è: milioni di persone stanno uscendo dalla povertà, le condizioni sanitarie stanno migliorando, e così pure la scolarizzazione media. Le epidemie sono sempre più rare e vengono combattute molto più efficacemente che in passato. Crudeltà e violenza rimangono, certo, ma sono sempre di meno considerate accettabili (difficilmente, un sovrano medievale si sarebbe preoccupato di giustificarle o negarle, come invece sono costretti a fare oggi anche i peggiori autocrati). Magari tutto cambierà a breve (in particolare se non stiamo attenti al cambiamento climatico); intanto, però, le cose stanno lentamente, ma progressivamente migliorando. Non è poco. Ed è da un certo punto di vista stupefacente”.
Sarà che ho assistito di persona e nei racconti familiari, così come sui libri di Storia, ma negare i salti in avanti della Valle rispetto solo a un secolo fa, senza neppure tornare di più indietro nel tempo, significa solo guardare il proprio ombelico. Si deve e si può far meglio? Avanti, c’è posto per tutti e sono in troppi a fare come i pensionati che guardano i cantieri per criticare quanto avviene e ci sono nei bar - oggi Social - dei campioni mondiali che semplificano questioni complicate con un tocco di bacchetta magica.
Conclude l’articolo istruttivo: “Perché noi siamo molto meno razionali di quanto pensiamo: siamo affetti da pregiudizi innati; tendiamo a attaccarci alle nostre opinioni anche quando vengono smentite dalle prove empiriche; diamo fin troppa importanza alla logica del gruppo… Come spiegare allora gli indubbi successi delle nostre società? La risposta di Pinker è interessante: non è la razionalità dei singoli che conta, bensì quella collettiva. Quello che garantisce il nostro accidentato progresso, in altre parole, non è tanto l’intelligenza del singolo quanto l’aver saputo sviluppare istituzioni che riescano a favorire scelte razionali, orientate per il meglio”.
E per essere ancora più convincente aggiunge: “Ma perché la razionalità dovrebbe avere a livello collettivo quel vantaggio che spesso non ha a livello individuale? Per una ragione molto semplice. Perché facciamo fatica a riconoscere i nostri pregiudizi, ma riusciamo a vedere quelli degli altri. Quindi una società che permetta lo scambio di idee e il confronto critico è una società che tendenzialmente saprà prendere le decisioni migliori, come risultato di questo sforzo collettivo. Così funziona la scienza, con test empirici e confutazioni, e così funziona la democrazia, con il suo sistema di pesi e contrappesi. Ecco un buon argomento in favore di una società capace di accogliere punti di vista divergenti. Sulla lunga distanza funzionerà meglio”.
Ma sia chiaro che i punti di vista divergenti nella democrazia che ci dobbiamo tenere stretti devono mettere a confronto tesi e proposte anche molto diverse, ma ciò avviene con idee e progetti fondati e certo ne ho letti di certamente interessanti di questo genere, ma ce sono anche che spiacciono per logiche da sentito dire o per una superficialità senza fondamenta.