Conosco Marco Camandona da quando era un ragazzino. È sempre stata una persona gentile e sorridente, dando attorno a sé un senso di serenità, che penso sia una dote importante in un alpinista di grido, in una guida alpina affermata e in un capo spedizione vero leader di diverse imprese alpinistiche.
La mia famiglia conosce la sua da tempo e il papà Peppino, amico del mio, imprenditore nelle pompe funebri, era un valdostano duro e puro, pieno di verve e di joie de vivre, come contrappasso al suo lavoro.
Marco, negli scorsi giorni, con la salita del Gasherbrum I, ha completato la sua lunga cavalcata su tutti i 14 ottomila metri senza ossigeno ed è stata una gioia per tutti noi amici e una fierezza per tutti i valdostani con la nostra bandiera che è salita sempre con lui in vetta.
Un percorso la scalata di tutti gli 8000 iniziato nel 1996 e condiviso con tanti colleghi e amici sotto l’iniziale supervisione di altri due valdostani fuoriclasse, Abele Blanc e Adriano Favre.
Marco è un Alpinista con la a maiuscola e questo ha ancor più valore con le sue imprese intrise di capacità tecniche e di una visione etica della montagna, pensando agli eccessi di commercializzazione che stanno vivendo le vette himalayane con percorsi che portano ad avere vie affollate come un bus nell’ora di punta con dilettanti allo sbaraglio.
In una dichiarazione resa a caldo, quando era ancora ai piedi della montagna, Marco ha detto: ”Non è stato un “dovere” ma quasi un gioco, un piacere personale. Le vette sono venute una dopo l’altra e, quando ha iniziato ad avvicinarsi la quattordicesima, l’idea di provare a salirle tutte si concretizzava, sempre con professionalità, preparazione, concentrazione e tanta determinazione”. E ha aggiunto: ”Un ringraziamento speciale va ai miei genitori e in particolare a mia moglie Barbara, che mi ha sempre sostenuto, aiutato e spronato nei momenti un po’ più bui e ha sempre “sopportato” i lunghi periodi di assenza da casa”.
Bella anche l’intervista di Floriana Rullo sul Corriere. È importante quando racconta dell’orfanotrofio a Kathmandu: “Io e Barbara non abbiamo avuto figli. Così abbiamo scelto di occuparci di questi bimbi che, altrimenti, non avrebbero avuto futuro. Per farlo mi sono ispirato all’ospedale creato Silvio Mondinelli”.
Ci si riferisce ad un ospedale costruito lungo la principale arteria di collegamento tra Kathmandu e Pokara allo scopo di assicurare assistenza qualificata e tempestiva alle numerosissime vittime degli incidenti stradali nel percorso.
Più avanti torna sulla stretta intesa con Barbara: ”In inverno la Valle d’Aosta è la nostra casa. Abbiamo lavoro, amici, legami. Nel cuore delle mie Alpi ho scalato tutti 4 mila, per allenarmi al meglio. In montagna si è sempre sul filo del rasoio, non si può sbagliare”.
E ritorna su quello che è diventata come una seconda patria: ”Amo la mia Valle d’Aosta, ma un pezzo del mio cuore è in Nepal. Appena posso riparto, non solo per le ascese…». Il non avere figli mi ha spinto, nel 2015, a decidere che ogni impresa avrebbe dovuto aiutare i bimbi meno fortunati. Avevo appena scalato il Kangchenjunga. Ora stiamo vedendo crescere 25 bambini, li consideriamo come nostri. Hanno dai 6 ai 17 anni. Altri sono già maggiorenni e sono già usciti dalla casa famiglia. Non hanno genitori o i genitori non potevano crescerli”.
Sul sito sito viene meglio dettagliato il progetto umanitario: “Dal 2015, si è dedicato a un progetto umanitario in Nepal creando, insieme a sua moglie e a un gruppo di amici, la Onlus "Sanonani", che in Nepalese significa "piccolo bambino". Il progetto è rivolto ai bimbi soli e alle famiglie che non possono dare sostentamento a figli numerosi, con l'intento di creare una vera e propria casa famiglia, dove poter trovare un pasto caldo, un letto, l'istruzione e tutto il sostegno necessario”.
Come si fa a non voler bene a persone così?