Ho incontrato, tempo fa, una dozzina di giovani valdostani che vivono e lavorano a Bruxelles e, come loro, ce ne sono tanti in Paesi vari. Un pannello nella recente Rencontre Valdôtaine a Champdepraz mostrava appunto questa presenza un po’ dappertutto.
Una sorta di diaspora di cui abbiamo contezza anche parlando con i nostri amici, che hanno figli in giro e questo avviene molto più di quanto si verificasse sino a pochi anni fa. Un fenomeno da osservare e comprendere, pur con qualche preoccupazione per un flusso che di primo acchito può essere anche letto come un parziale svuotamento a detrimento della Valle d’Aosta di giovani energie.
È stata, quella serata conviviale, interessante e pure divertente, perché - ciascuno con il proprio piglio - si è presentato a me e agli altri in un giro di tavolo molto spontaneo. Ne è emerso un quadro vario di attività e di impegni, che ha mostrato i loro talenti in quella Capitale dell’Unione europea che è ricca di opportunità, che io stesso ho sfruttato per crescere.
Questa emigrazione non ha nulla a che fare con l’emigrazione storica e massiccia dei valdostani di un tempo e sbaglia chi traccia dei paralleli con il passato e con le storie di chi se ne andava per necessità contro la povertà o, nel Ventennio fascista, perché dissidente rispetto al Regime. Questi giovani di oggi vanno via per seguire le loro aspirazioni e sono in certi casi figli di esperienze della “generazione Erasmus”, che con gli scambi universitari ha aperto un mondo che per le mie generazioni non c’era.
Come testimoniato anche quella sera, tutti mantengono legami con la Valle e sono pure disponibili a immaginare di essere utili, nelle loro plurime attività, alla loro comunità di origine, ma non esiste - come nella emigrazione storica - quello struggente ricordo della loro terra incarnato anche in tristissimi canti popolari.
Dovessi dire: la gran parte di loro - e l’ho riscontato in tanti giovani valdostani incontrati all’estero in altre circostanze - ha acquisito un status, ammirevole in sé, di cittadino del mondo, pur senza rinnegare le proprie radici.
Molto spesso, però, nel mondo autonomista cui appartengo sin da ragazzo per convenzione e storia familiare, si discute della realtà di un progressivo e generale allontanamento delle giovani generazioni da valori identitari che dovrebbero distinguere in senso positivo una piccola comunità come antidoto al rischio di oblio di elementi che sostanziano la specificità dei tratti culturali che poi si riflettono sulla politica. In soldoni: se viene meno una coscienza di sé e di elementi che distinguano un proprio modo di essere, allora si cede a modelli standardizzati ben rappresentati in un mondo digitale ipnotico e globalizzato che detta mode e comportamenti che rendono tutto tristemente piatto e ripetitivo.
Intendiamoci bene: non si tratta di immaginare una identità valdostana ferma nel tempo e chiusa in un proprio orticello con il rischio di una visione solo folkloristica e legata a modelli del tempo che fu con una nostalgia a tratti retriva. Tutto cambia e si evolve e le idee fondanti, i progetti che servono a crescere, le spinte al progresso sono giocoforza in continua trasformazione e chi verrà dopo di noi proseguirà questo cammino di progressivo cambiamento senza fermarsi imprigionato dal passato e dalle nostalgie. Ma naturalmente questo vuol dire disegnare nuovi equilibri e sapere che non si guarda avanti con gli occhi nello specchietto retrovisore senza tuttavia spingerci sino a non avere più una propria personalità, mentre resta viva la necessità di creare modelli culturali, sociali e politici che mantengano una propria originalità come elemento di distinzione.
Per questo credo che si debba dar fiducia ai giovani che non vanno via e vivono qui con l’apporto di chi per inseguire le proprie speranza se n’è andato e si dice disponibile a mantenere un legame e ad apportare elementi utili per costruire la Valle d’Aosta del futuro, allontanando lo spettro del farsi vivere come apolidi a casa propria o come persone che non hanno una storia alle spalle.