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27 ago 2024

Capisco il ”mal d’Africa”

di Luciano Caveri

Nelle riunioni di famiglia ci sono discussioni sulle ”grandi vacanze”, che restano giocoforza quelle estive. Già non è facile mettere assieme i pezzi per le date e quasi sempre, almeno per ora, si cade su Agosto con tutti i rischi di caos e soprattutto di costi supplementari. Quel che è certo è che si tratta di una programmazione di lunga gittata e non frutto di improvvisazione.

Confesso ancora di essere oggetto di sfottò da parte di amici e colleghi politici, che scherzano sul fatto che io ritenga salutare ”staccare” e partire. L’ho sempre fatto, perché penso che allontanarsi - anche per periodi brevi - dia la carica giusta e consenta soprattutto di fare nuove esperienze.

Certo - lo dico persino troppo spesso - oggi la fuga da vacanza non si significa più vivere altrove per un certo periodo, perché il Web e i suoi aggeggi creano un cordone ombelicale che ti insegue anche nei posti più remoti e lo considero un male cui rassegnarsi e di fatto continui perciò a seguire i dossier urgenti.

Quest’anno il clou è stata un’esperienza mai vissuta: il safari. Nutrito di letture giovanili periodicamente aggiornate, di una filmica sul tema accumulata nel tempo, di una curiosità sul ”come sarà?”, sono finito in Sudafrica nel Parco Kruger con un antipasto alle Cascate Vittoria tra Zimbabwe e Zambia. Niente di eroico, tipo quel David Livingstone, scopritore delle cascate rappresentato in statua con abiti coloniali proprio di fronte a questo spettacolo della natura.

Certo tre ore a cavallo nella savana per uno che non ha grande dimestichezza con questo nobile animale sono state una grande avventura a mia misura. Questo primo incontro, assieme alla navigazione sullo Zambesi, mi ha riempito gli occhi di animali selvaggi, di scorci di natura e di albe e tramonti mozzafiato.

Capisco meglio quel “mal d’Africa” (non quello colonialista di epoca fascista!), che vari consocenti mi descrivevano e che mi aveva poco contagiato in visite precedenti in altri Paesi di questi Continente.

Il Parco Kruger, con “spedizioni” due volte al giorno in jeep e una volta a piedi, è stata un’immersione totale dal fascino memorabile.

Noi siamo convinti di spiare gli animali, mentre direi che sono loro che ci guardano. Sarà che, compreso chi vi scrive, ci vestiamo fantozziananente come se dovessimo fare chissà quale spedizione, sarà che li ammiriamo con trasporto, spiandone le mosse da vicinissimo o con il binocolo, ma quel che è certo è che molti di loro ti guardano con l’aria di dirti: ma che cavolo vuoi?

Mi ha colpito un leopardo, che terrei sul divano di casa, che mi/ci guardava come un micione con aria sonnolenta e, infine, stufo della nostra invadenza è balzato su di un albero, ciondolando sul ramo con assoluta tranquillità. Fantastici i singoli e le famigliole di diverse specie e ogni volta il ranger, che guida le jeep negli sterrati con perizia da segno della croce, spiega con dovizia di particolari vizi e virtù dei diversi soggetti.

Il più temuto non è il leone, come da mia idea preconcetta, ma il cattivissimo ippopotamo, che fa svanire il grosso pupazzo del Carosello della Lines della mia infanzia che sembrava per la sua dolcezza il protettore dei bebè, mentre nella realtà se fai il cretino al suo cospetto ti insegue come un razzo malgrado la stazza e ti ingoia.

Ho provato persino tenerezza (si fa per dire..), invece, per un recinto pieno di coccodrilli, a due passi dello Zambesi: un allevamento che serve per soddisfare le richieste di mercato delle loro pelli in cinture e borsette…

Che ci sia comunque poco da scherzare, è comunque dimostrato dal fatto che nel lodge nel cuore del Parco la notte per andare dormire nelle proprie casette ti accompagna, malgrado muri e reti elettrificate, un tizio con il fucile. Le popolazioni? In tutto il tour, compreso Johannesburg e dintorni, si incontrano le popolazioni locali e il dialogo è interessante.

Nel caso del Sudafrica sono ferite ancora non cicatrizzate del tutto. Ognuno racconta la sua storia: i neri la loro profonda e anche dolorosa, gli afrikaans mitizzata e autocentrata, gli inglesi sicuri di sé, ma sono stati quelli più in fuga in altri Paesi nel post apartheid.

Un crogiolo che fonda nuove identità.

Nel lodge in mezzo alla brousse ho danzato danze tradizionali e questo contatto non è stato solo folklore.