È con grande gioia che partecipo da domani al Sommet de la Francophonie a Parigi. Dopo anni di assenza, che ha un colpevole valdostano che non cito per delicatezza, si torna nella grande famiglia su invito che lusinga del Presidente Emmanuel Macron.
Io partecipai, come Presidente della Valle, a questa assise nel 2006 in Romania e mi fu chiaro quale vantaggio ci fosse e c’è ancora in questa finestra sul mondo.
Mi ricordo quando cercai di convincere Prodi, allora Presidente del Consiglio, della bontà di una pieno patrocinio dell’Italia, imitando quanto avviene nel rapporto fra la presenza del Canada come patronage del Québec. Lui si stupì della Francophonie e mi chieste: ”Ma è una specie di Commonwealth?”.
Ne illustrai le differenze e ribadii le ragioni della Valle d’Aosta. Ne scrissi su questa linea tempo fa con tre elementi. Il primo: il francese è indubitabilmente un elemento della Storia valdostana: ricordo come il francese divenne lingua ufficiale della Valle d'Aosta nel 1561 con l'"Editto di Rivoli". E oggi resta uno dei fondamenti anche del nostro Statuto speciale. Ciò fa parte di quei caratteri originali frutto degli avvenimenti del passato ed il francese serve per capire certe vicende in lingua originale e non con traduzioni che possano far perdere spirito ed animo. Insomma: chi cerca le radici trova il francese e non si può negare l'evidenza.
Il secondo: la francofonia è una chance in più per leggere il mondo (compresa l'Unione europea con le Istituzioni a Bruxelles e Strasburgo!), visto che resta una lingua importante e garantisce una rete di contatti che altri non hanno ed è dunque un vantaggio, che non impedisce l'apprendimento di altre lingue, visto la forza nell'essere poliglotti. Penso all'originalità di un'Università valdostana che segua questa strada, occupando questo spazio, che è un filone che appare attrattivo anche per studenti esterni e consente di far parte di un reticolo di contatti preziosi.
Il terzo: la francofonia è indispensabile per i contatti culturali ed economici con le zone francesi e svizzere confinanti: l'interscambio è una realtà di prossimità e non è una fandonia a difesa di chissà che cosa.
Abbandonare la partita del francese significherebbe in sostanza rinnegare la storia del passato e non lo dico con una logica nostalgica - perché i tempi cambiano e dall'inizio del popolamento della Valle tante lingue sono state parlate su questo medesimo territorio alpino - ma perché si tratta di un aggancio necessario per la propria identità. Scriveva Sant’Agostino: «Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi». Questo per dire, con le parole senza tempo di un padre della Chiesa del primo millennio, che esiste una dimensione globale che oggi, a maggior ragione ci coinvolge, ma appunto per evitare di essere più apolidi che cittadini del mondo bisognerà pur sempre avere - per chi lo voglia - una base di partenza e di ritorno in cui ritrovare, anche nella sfera più personale, la propria dimensione affettiva e culturale.
Io mi riconosco nell'amore per la lingua francese, nel solco di una tradizione di una famiglia che - pur imparentata con famiglie locali attraverso i matrimoni - ha scelto, provenendo dalla vicina Liguria, di "diventare" valdostana da metà Ottocento e nella mia famiglia l'uso del francese caratterizzava tutti gli incontri di mio papà con i suoi fratelli e sorelle, come dimostrano anche molte lettere che ci si scambiavano fra loro quando erano distanti.
Buttare tutto nel cassetto dei ricordi nel nome del flusso della modernità sarebbe assurdo, anche se poi ognuno è libero di pensarla come vuole. Io concordo con il cantante-poeta del Québec, Gilles Vigneault, che ha scritto rivolgendosi alla sua gente: «La francophonie, c'est un vaste pays, sans frontières. C'est celui de la langue française. C'est le pays de l'intérieur. C'est le pays invisible, spirituel, mental, moral qui est en chacun de vous». Aggiungendo, in un'altra canzone, sulle radici: «L'arbre, on ne pense pas assez à ses feuilles. Si on y pensait, on prendrait plus soin de ses racines».