Ascoltavo l’altro giorno France Info -una radio con flusso informativo che non ha purtroppo eguali in Italia - e con subitaneo divertimento ho sentito un reportage sulla “réunionite”.
Ohibò! Vado a vedere sul vocabolario: “Manie de tenir des réunions inutilement”. Mi sembra un sintetica rappresentazione della realtà, senza fronzoli.
Si apre un mondo all’improvviso e riavvolgo il nastro sul mio passato, dopo aver constatato che questa “riunionite” esiste anche - come neologismo - in italiano e che di certo negli anni ne sono stato vittima e talvolta carnefice.
Trovo l’incipit di un articolo di qualche anno fa di Lorenzo Cavalieri sul Sole 24 Ore: “Se un ex impiegato o un ex manager novantenne tornasse nella sua vecchia azienda a testare una giornata di lavoro tipo dei suoi colleghi del terzo millennio resterebbe sbalordito dal numero e dalla frequenza delle riunioni: «strategiche, operative, di allineamento, di feedback, di kick off, di brain storming» e chi più ne ha più ne metta. Se dovessimo dare una rappresentazione fotografica di cosa sia oggi il lavoro d’ufficio ad un bambino delle elementari finiremmo certamente col dire: «scrivo molte mail e nel tempo che mi resta partecipo a delle riunioni”.
Dopo la pandemia tutto questo è peggiorato, come una coda malevola che ha aggiunto nuove, cattive abitudini.
Ebbene, guardando alla mia esperienza personale in politica e non solo mi accorgo come questa ossessione per la riunione - peggiorata dalle call (che mi ostino spesso di chiamare, anche se fuori moda, videoconferenze)- che ormai ti raggiungono ovunque in piena continuità con l’invasione che ci assilla di messaggini, mail, agende che squillano e di conseguenza cervelli che mai si stoppano.
Si aggiunge un articolo di Formiche con questo sottotitolo: “Uno studio sostiene che si trascorrono in media 18 ore la settimana in confronti online o in presenza, che il 31% delle persone vorrebbero evitare”.
Per dare poi la parola a Anna Zanardi, International board advisor and change consultant di fronte ai tentativi di ridimensionare le riunioni in qualche modo: “Il tema non è per nulla nuovo: nel passato più o meno recente si è provato con stratagemmi di vario tipo a migliorare l’efficacia di questi momenti di confronto, dal contingentare rigidamente i tempi al costringere in piedi gli astanti, fino ai meeting fatti durante il jogging dell’amministratore delegato. Jeff Bezos aveva poi elaborato la teoria per cui un meeting non poteva avere più partecipanti di quelli che possono essere sfamati con due pizze. Tutte soluzioni che non sembrano aver risolto il problema alla radice. Perché nel vissuto della riunione di lavoro si inseriscono altri elefanti nella stanza: il meeting con i propri collaboratori è spesso il momento per riaffermare una leadership claudicante, per mettere in scena i meccanismi di potere, per esercitare fisicamente il controllo. Dall’altro lato, la partecipazione è vissuta come conferma di far parte dell’Inner Circle, e il mancato invito come un affronto personale. Chiunque si è trovato a dover aggiungere fra gli invitati persone non fondamentali per la discussione in corso per il timore di fare uno sgarbo”.
Ho deciso, guardando il numero impressionante di riunioni già nei mesi a venire, che cercherò io stesso di uscire piano piano dal vortice o quantomeno di contrarre i tempi, che spesso debordano senza vere ragioni. Insomma, un buon proposito.
Bene, se non fosse che mi sovviene Oscar Wilde: “I buoni propositi sono inutili tentativi di interferire con le leggi scientifiche. Nascono dalla pura vanità e il loro risultato è un nulla assoluto. Ogni tanto ci regalano una di quelle emozioni voluttuose e sterili che hanno un certo fascino per i deboli: è tutto quello che se ne può dire. Sono semplicemente assegni che gli uomini emettono su una banca dove non hanno un conto corrente”.