Donald Trump ha vinto e in modo chiaro e netto. Inutile tornarci sopra, perché nelle scorse ore siamo stati travolti da notizie e commenti e dunque tutto è stato detto. L’Europa dovrà adeguarsi a questa notizia, al di là delle tifoserie pro o contro Trump.
Non è certo un mistero che io sia europeista e da sempre convinto della necessità di dare impulso all’integrazione europea, rimasta per molti versi fra color che sono sospesi. Ora deve scattare l’impulso a darsi una sveglia alla luce del sicuro isolazionismo trumpiano e bisogna ragionare sempre di più su di una dimensione politica continentale, che dia il peso necessario ad un’Unione europea che rischia di essere schiacciata dai grandi e contare poco fra vecchi equilibri e Paesi emergenti.
Divisi non si va da nessuna parte, uniti si può contare sullo scenario mondiale e i recenti rapporti resi alla Commissione, rispettivamente da Mario Draghi e Enrico Letta sono stati utili per indicare alcune strade prioritarie specie in materia di competitività economica.
Fra queste appare centrale una politica estera comune incisiva e chiara.
Un vero primo rinculo di Trump alla Casa Bianca, con la Russia che spinge ai confini e l’Ucraina che Mosca considera la prima tappa di una riconquista di territori e influenze in zone ex URSS o Patto di Varsavia, riguarda un abbandono dell’Europa delle truppe americane e un ripensamento della NATO, cui intanto hanno aderito non a caso Svezia e Finlandia. Un incrocio di questioni che rilanciano il tema dell’esercito europeo con la presenza nella nuova Commissione europea di Andrius Kubilius, nominato come primo commissario europeo per la Difesa (e lo spazio) ed è un segno tangibile di un’accelerazione. Un passaggio epocale a maggior ragione con la nuova leadership statunitense.
Interessante quanto su Eurobull ha scritto, a suo tempo, Fabio Marcello Correra sulla storia del passato: “Dopo la Seconda guerra mondiale, per garantire la propria sicurezza, gli Stati europei iniziarono ad elaborare alcuni primordiali strumenti: del 1947 è il Trattato di Dunkerque, un’alleanza difensiva di vecchio stampo tra Regno Unito e Francia, poi aggiornato l’anno successivo nel Trattato di Bruxelles con l’apertura a Belgio, Olanda e Lussemburgo. Questa alleanza, nata più in funzione anacronisticamente antitedesca che antirussa, diede poi vita all’Unione Europea Occidentale nel 1954, un’organizzazione internazionale di sicurezza e difesa retta da alcune istituzioni di stampo intergovernativo.
Nel 1948 fu creata l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), in seguito tramutata in Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Tale organismo nacque con lo scopo di gestire in modo coordinato il flusso di aiuti del Piano Marshall. Questo primo seme di integrazione europea permise il raggiungimento della seconda tappa, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), nel 1950, a seguito dell’epocale dichiarazione del Ministro degli Esteri francese Robert Schuman («La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio [...] cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime»), apertamente ispirata a Jean Monnet, responsabile francese per il Piano Marshall nonché principale teorico del modello funzionalistico di integrazione europea”.
Quindi la questione militare era sullo sfondo, ma sarebbe diventata concreta con la possibile nascita della Comunità Europea di Difesa (CED), che sembrava essere davvero la premessa verso un esercito europeo, che naufragò, come racconta l’autore: “Quando, però, al 1954, si arrivò alla fase di ratifica del trattato, l’Assemblea Nazionale francese lo rigettò senza neanche discuterlo: in quei due anni erano emersi diversi fattori che causarono la totale marcia indietro francese. Nel 1953 la morte di Stalin aveva portato a un relativo e progressivo miglioramento delle relazioni est-ovest. Parallelamente l’industria militare francese, estremamente rilevante nel saldo dell’economia del Paese e la cui autonomia è tradizionalmente al centro dell’agenda politica di ogni Governo, sottolineò quanto sarebbe stata danneggiata dalla forte concorrenza in termini che sarebbe nata in seno alla CED. Un altro motivo di dissenso riguardò la mancata partecipazione del Regno Unito: Winston Churchill scelse di perseverare nella tradizionale politica del restare esterni alle logiche continentali, tipica della storia britannica, e di favorire la dottrina dei cerchi concentrici, secondo la quale il Regno Unito avrebbe avuto da curare aree di interesse, quali i rapporti transatlantici e il Commonwealth, che allontanavano il focus dall’Europa continentale. (…) Il fallimento della CED decretò l’abdicazione di qualunque iniziativa sovranazionale di difesa nella critica fase storica della nascita delle Istituzioni europee, a favore del solo approccio intergovernativo e soprattutto atlantico, facendo cadere l’intera Europa occidentale nella completa dipendenza difensiva statunitense. Ciò finì con il valere anche per la Francia, che dovette poi accettare l’ingresso, nel 1955, di Germania e Italia nella NATO. L’Unione europea occidentale finì per essere una “gamba” della NATO, e non arrivò mai a una reale autonomia. Nel 2011 cessò di esistere con il trasferimento di tutte le sue competenze all’Unione europea”.
Ci sono poi stati passaggi intermedi ma nulla di forte, mentre oggi si sta arrivando al redde rationem. Vale di certo quanto sostiene Correra: ”Una componente importante dei costi della “non-Europa” della difesa è generata da un mercato estremamente frammentato su base nazionale. La base industriale europea della difesa è estremamente vasta e complessa, tecnologicamente avanzata e in grado di operare in tutti i principali segmenti della sicurezza e della difesa. Effettuando gli acquisti in ordine sparso, gli stati possono rivolgersi in via pressoché esclusiva alla propria industria nazionale, foraggiando così la propria base industriale al di fuori delle regole di quello che, formalmente, dovrebbe essere un segmento del mercato comune europeo. In questo modo i governi possono preservare la propria base industriale, le competenze e le tecnologie da essa sviluppate, nonché i posti di lavoro a essa associati, ma con un ovvio costo per la competizione tra aziende a livello europeo, e quindi in ultima analisi per la competitività dell’industria europea della difesa. Se teniamo in conto il mantenimento di 27 strutture nazionali di difesa invece che un’unica struttura integrata, le stime proposte nel corso degli anni dimostrano variazioni notevoli, in base a quali fattori sono inclusi e di come sono quantificati, ma un recente studio commissionato dal Parlamento europeo propone una stima prudente di possibili risparmi derivanti da una completa inte razione della difesa pari a 26 miliardi di euro l’anno”.
Insomma: un esercito europeo per difendersi è pure conveniente.