Quando sento parlare dell’obbedienza, mi vieni in mente un preciso evento storico. La famosa frase “Obbedisco” fu pronunciata da Giuseppe Garibaldi il 9 agosto 1866, durante la Terza Guerra di Indipendenza Italiana. Garibaldi stava guidando i suoi volontari, i Cacciatori delle Alpi, contro l’Impero Austriaco. Dopo aver ottenuto una vittoria nella battaglia di Bezzecca (21 luglio 1866) e aver quasi completato la conquista del Trentino, ricevette l’ordine dal governo italiano di cessare l’avanzata e ritirarsi. Sebbene contrariato, Garibaldi inviò un telegramma con una sola parola: “Obbedisco”, dimostrando disciplina e lealtà allo Stato unitario.
La parola deriva dal latino obedientia, che a sua volta proviene dal verbo obedire, che è composto da “ob” (rafforzativo) e “audire”(ascoltare). Oltre ad “ascoltare con attenzione”, per estensione, si intende “eseguire un ordine” o “sottomettersi ad un comando”. Questo vale, come da esempio iniziale. Nel gergo militare, ma anche come sottomissione all’autorità ecclesiastica (e alla volontà divina) in campo religioso e più in generale all’atto con cui ci si conforma a regole o indicazioni. Nel tempo, il termine ha assunto significati diversi a seconda del contesto.
Vito Mancuso, il noto teologo, giorni fa, ha scritto sul tema “Fece bene don Milani nel 1965, esattamente sessant'anni fa, a dichiarare che «l'obbedienza non è più una virtù»? Io penso di sì, oggi però, guardando lucidamente la condizione della società, bisogna a mio avviso riaffermare il contrario: l'obbedienza è una virtù, una delle più alte”.
E poco più avanti: “Ai tempi di don Milani, in genere nella società e in particolare all'interno del clero a cui egli si rivolgeva (era infatti indirizzato ai cappellani militari lo scritto così intitolato) si proveniva da secoli in cui sul principio dell'obbedienza e la sua rigida gerarchia si era fondato ogni rapporto, quello che portava le mogli a obbedire ai mariti, i fedeli ai parroci, gli intellettuali ai politici, gli operai ai padroni, i poveri ai ricchi, le donne agli uomini. Si trattava di una logica antica e cristallizzata grazie all'educazione instillata fin dai banchi di scuola e ancora prima, la medesima sostanzialmente che aveva prodotto la servitù della gleba nel medioevo cristiano e la schiavitù nel mondo greco-romano. Dopo don Milani arrivò il Sessantotto che fece della disobbedienza il principio cardine dell'impegno civile e da allora essa è diventata sinonimo di autonomia e di libertà, mentre l'obbedienza di sottomissione e di servitù. Chi oggi infatti pensa più che l'obbedienza sia una virtù? “.
Tema interessante, che vale nella vita quotidiana di ciascuno di noi e, come tale, meritevole di rifletterci sopra, come fa Mancusoe cerco di sintetizzare il ragionamento.
Mancuso: “Ritengo sia per questo che oggi nessuno obbedisce più. Non mi riferisco solo ai rapporti elencati sopra, per la gran parte dei quali l'obbedienza tramontata è giusto che resti tale; no, mi riferisco anche ad altre relazioni a proposito delle quali invece l'obbedienza è necessaria, per esempio le relazioni tra genitori e figli, tra professori e allievi, tra cittadini e autorità. Oggi forse solo all'interno del mondo economico e del mondo dello sport (che comunque è sempre parte del mondo economico) vige ancora sufficientemente forte il senso di gerarchia e della dovuta obbedienza, quella che i dipendenti devono ai dirigenti, i calciatori all'allenatore, i giornalisti o gli orchestrali al direttore. Nel mondo della scuola, invece, e nella maggioranza delle famiglie, e in genere nei rapporti sociali non necessitati dalla logica economica, l'obbedienza stenta a essere rispettata e la disciplina latita. Ce ne accorgiamo anche solo camminando per strada o guidando nel traffico. E quanto più scende l'età delle persone, tanto più sale l'indisciplina. Lo manifesta già il linguaggio, dove è sempre più raro trovare giovani che diano del "lei" a chi ha più anni di loro”.
Ovviamente Mancuso insiste sulla validità di certi principi in dissoluzione e così argomenta nella parte che ritengo più interessante del suo ragionare: “Il punto critico, ovviamente, concerne la domanda "a chi" vada prestata obbedienza. La mia risposta al riguardo è abbastanza prevedibile e consiste nel sostenere che va prestata alla legittima autorità, sostenendo altresì che a un'autorità che abbia perso la sua legittimazione non va più prestata alcuna obbedienza. L'obbedienza, cioè, non è una virtù assoluta, "perinde ac cadaver" come sant'Ignazio di Loyola voleva l'esercitassero i suoi gesuiti; no, l'obbedienza è relativa, in relazione cioè a una persona o a un'istituzione, e se questa persona o questa istituzione non sono più fedeli al loro compito, se cioè non obbediscono a loro volta, non meritano più la nostra obbedienza”.
C’è poco da aggiungere.