«Sono arrivati in trecentomila ad Aosta, invadendo pacificamente una regione in cui vivono 120mila abitanti: è come se a Milano fossero improvvisamente giunti tre milioni di persone. Alla 76esima adunata dell'Associazione nazionale alpini c'erano tutte le ottanta sezioni italiane e le dicassette estere. Il fiume delle "Penne nere" ha cominciato a sfilare per le vie della città alle 8 del mattino, per finire solo tredici ore più tardi, alle 21». Così Franco Brevini, giornalista esperto della montagna, scriveva sul "Corriere della Sera", commentando l'Adunata degli Alpini di Aosta di dieci anni fa. Naturale pensarci mentre a Piacenza in queste ore le "Penne nere" sfilano per l'Adunata di quest'anno e noi ricordiamo quell'edizione valdostana, che era in realtà la seconda, visto che già nel 1923 - in tandem con Ivrea - nel capoluogo valdostano si era svolta l'Adunata. All'epoca ero parlamentare europeo e seguii la sfilata dalle tribune allestite in fondo a via Festaz nei pressi della Torre del Lebbroso, ma nelle ore prima era stato divertente girare per la città, piena come non mai di alpini festanti in quel mix fra organizzazione militare di ogni minimo particolare e l'allegra anarchia della bisboccia collettiva. Proseguiva Brevini nel suo "pezzo": «di fronte a un evento così grandioso, che è sempre un avvenimento, la domanda è d' obbligo: cosa spinge ogni anno centinaia di migliaia di persone a partecipare all'adunata della "seconda naia"? Quello del reducismo alpino è un fenomeno imponente che non ha riscontro in alcun altro corpo militare. Forse una risposta va ricercata nel profondo radicamento di quest'Arma in un bacino relativamente omogeneo come quello della montagna. Grazie alla coscrizione territoriale, la gente di montagna sente le "Penne nere" come i "suoi" soldati. E non è un caso che tanta parte del repertorio dei canti popolari italiani provenga dalla prima guerra mondiale, che è stata una guerra alpina». Sono d'accordo: questa è sempre stata la chiave del successo e della forte identità. Ormai l'esercito professionale ha cancellato quella particolarità ed è vero che in molti scenari di guerra internazionali le Truppe Alpine sono presenti a dispetto di chi a Roma, negli Alti comandi, non li ha mai amati, ma questo successo è accompagnato dal lento declinare della "force de frappe" e dell'"essere montanari". Per cui l'Adunata, nel tempo, sarà destinata a riflettere la fine di quelle caratteristiche singolari che hanno forgiato gli Alpini, di cui tanti si parlerà fra qualche anno per i cento anni dalla Prima Guerra Mondiale. Concludo con Brevini, che suona molto attuale: «forse l'adunata alpina ci dice qualcosa che sfugge alle indagini di mercato e alla banalizzazione televisiva. E' lo zoccolo duro del paese fatto di gente alla buona, operosa, seria, che magari parla dialetto e si industria, sopravvivendo come può alle mode, ai partiti, alle chiacchiere, alle manovre, alla demagogia. Insomma l'altra faccia del Grande Fratello. Dire oggi "viva gli alpini", vuol dire onorare l'Italia che può ritrovarsi numerosa senza sentirsi massa, l'Italia sobria e schiva che tira la carretta, con i piedi saldamente a terra, senza vergognarsi del suo vecchio cappello che ha più di un secolo».