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29 lug 2018

La popolocrazia che inquieta

di Luciano Caveri

Noi siamo cambiati e lo è il mondo attorno a noi. Bisogna prenderne atto e, come dico sempre, chi si ferma - anche nella minuscola Valle d'Aosta - è perduto, specie nella misura in cui di questi tempi tutto è terribilmente veloce e dunque chi indugia finisce nel dimenticatoio o lo finisce anche chi rimastica vecchie pietanze. Bisogna saldamente restare ancorati agli avvenimenti presenti ed ispezionarli perché non ci sorpassino, per poi ritrovarsi ad esserne sopraffatti. Osservava non a caso Arthur Schopenhauer: «Invece di essere sempre ed esclusivamente preoccupati per i progetti e i pensieri dell'avvenire, o per contro di abbandonarci alla nostalgia del passato, non dovremmo mai dimenticare che il presente è l'unica cosa reale e l'unica certa».

Tuttavia - piuttosto intossicato dalle vicende politiche - nelle letture estive mi sono dedicato ai romanzi, tra cui i soliti scrittori estivi favoriti come Guillaume Musso ("La Jeune Fille et la nuit") e Marc Levy ("Une fille comme elle"), che consiglio vivamente per le loro storie che sanno stupire. Ma poi, si sa, qualche saggio politico l'ho letto per innata passione e segnalo in particolare - con focus su Italia e Francia, come dai due politologi autori - un bel libro istruttivo "Popolocrazia: La metamorfosi delle nostre democrazie" di Marc Lazar, Ilvo Diamanti editore Laterza in "Tempi Nuovi", sottotitolo esemplificativo "La metamorfosi delle nostre democrazie". Ne cito un pezzo senza svelare le tesi fondanti, essendo che i libri vanno letti e non solo descritti: «La dinamica politica è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i "buoni" contro i "cattivi". La "popolizzazione" degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della "vera democrazia" forgiata dal "popolo autentico" con ciò minando alle fondamenta la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare una popolocrazia. Il populismo è comparso e compare sempre in periodi di forti incertezze, di traumatici, di fasi di crisi. Crisi economiche, sociali, culturali. E, soprattutto, crisi politiche quando rientrano nell'ambito dell'eccezionale, dell'inatteso, dell'imprevisto, dell'inedito: la delegittimazione dei governanti, delle istituzioni, delle regole e delle norme in vigore, delle abituali procedure di mediazione. E' su questo terreno che i populisti possono prosperare, dipingendo un quadro apocalittico del presente e proponendo il ritorno a un passato favoleggiato o facendo intravedere un futuro radioso. Sono contemporaneamente i prodotti di queste crisi e i loro creatori. Come sta rispondendo la democrazia a tutto questo? Ahimè inglobando elementi di populismo: adeguando gli stili e il linguaggio politico, i modelli di partito, le scelte e le strategie di governo. In una parola, sta trasformando se stessa in una popolocrazia». Scenari per nulla nuovi perché il populismo è andato e venuto nella storia, rinascendo dalle proprie ceneri con aspetti vecchi e anche nuovissimi. Cercare di capirlo è un dovere, se si crede utile reagire nel solco dei propri pensieri e personalmente credo che federalismo (in cui credo) e populismo facciano scintille. Ma approfondire le ragioni del loro successo vuol dire capire i perché degli spostamenti di voti che ne hanno sancito i successi elettorali, precondizione per capire dove andranno e quanto dureranno. Ma quel che colpisce è come, secondo gli autori, su affrontano i problemi: «Le risposte sono evidenti, basate su un discorso fondamentalmente dicotomico: pro o contro, bene o male, sì o no, amico o nemico, loro o noi. Per i populisti non esistono problemi complicati, ma unicamente soluzioni semplici, facili da attuare. A questo riguardo, la loro temporalità è quella dell'immediatezza, dell'istantaneo, e il loro regime di storicità è il presentismo. In questo modo, annientano l'arte della politica e del governo, fondata tradizionalmente sui tempi dell'osservazione, della valutazione competente, della riflessione, della mediazione, della deliberazione e poi dell'azione». Insomma: situazione spinosa, cui dare risposte vere e non fuffa ideologica da vecchi brontoloni o da intellettuali da convegnistica. Lazard e Diamanti osservano verso la fine del libro: «Oggi, infatti, siamo in una fase di passaggio. Una transizione. Nella quale la popolocrazia si sviluppa e insinua un po' dovunque. Nel corso della sua storia, d'altronde, la democrazia liberale e rappresentativa ha già ceduto ad alcuni assalti, come nel periodo fra le due guerre del secolo scorso. Ma, al tempo stesso, ha saputo reagire. Affrontare diverse altre sfide. Perché conserva ancora una notevole capacità di resistenza. O meglio: di adattamento. A condizione, però, che i "partigiani della democrazia" - liberale e rappresentativa - riescano ad analizzare e a comprendere i cambiamenti che essa sta attraversando. A dimostrare la sua capacità di rispondere alle domande e alle aspirazioni delle popolazioni - disorientate, inquiete. Talora, perfino disperate. (...) A condizione, ancora, di restituire senso - e passione - alla politica. Di ricostruire un clima di fiducia fra i cittadini e i loro rappresentanti. E di rilanciare il progetto europeo». Sottoscrivo e penso che sia bene discuterne, specie dopo le sconcertanti dichiarazioni di Davide Casaleggio, guru per asse ereditario dei "Cinque Stelle", sulla futura abolizione del Parlamento in un delirio che deve scuotere le coscienze.