La questione demografica pesa e peserà come un macigno sulla società valdostana e mi pare che se ne debba avere piena coscienza. Chi ha letto lo studio della Cattolica di Milano, che commissionai poco tempo fa al grande demografo Alessandro Rosina e alla sua squadra, ha avuto modo di capire quale baratro ci aspetti e non mi infilo in dati vari, tipo il disastroso tasso di fertilità. Propongo un primo passaggio: “Senza una urgente inversione di tendenza della natalità e un rafforzamento anche nel breve e medio periodo della popolazione in età attiva, il rischio è quello di scivolare in una spirale negativa che porta ad un continuo aumento degli squilibri strutturali e indebolisce le possibilità di sviluppo economico e sostenibilità sociale”. E ancora: “Gli effetti maggiori della riduzione della popolazione attiva si sentiranno nei prossimi 15-20 anni. Gli attuali trentenni entreranno al centro della vita attiva mentre gli attuali cinquantenni si sposteranno in età anziana. Per la regione Valle d’Aosta le proiezioni Istat 2020 illustrano una riduzione della popolazione attiva da 72.760 unità a 62.193 nel 2036 (Tabella 2.3 Scenario Istat 2020 Mediano). La popolazione anziana (65+) subirà invece un incremento passando da 30.220 unità nel 2021 a 37.095 nel 2036 (Tabella 2.6 Scenario Istat 2020 Mediano). L’entità dell’indebolimento della componente della popolazione che maggiormente contribuisce alla crescita economica, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare, lo si può ottenere facendo il rapporto tra tali due fasce d’età. In Francia la fascia 30-34 è circa il 90% della fascia 50-54, si scende attorno all’85% in Germania, al 75% in Spagna, al 67% in Italia, al 58% per la Valle d’Aosta”. Aggiungo questa parte: “La consistenza delle generazioni che nasceranno dal 2022 in poi e il contributo integrativo che potrà arrivare dall’immigrazione, fanno parte del futuro non ancora scritto e che può rendere meno grave il crollo della popolazione attiva, aiutando a spostare la traiettoria della Valle d’Aosta verso gli scenari più favorevoli”. Infine: “L‘inversione di tendenza deve combinare capacità di attrazione in coerenza con la vocazione del proprio territorio e investimento sulla qualità dei servizi che promuovono la realizzazione dei progetti di vita assieme a quelli lavorativi. È necessario, inoltre, agire in modo urgente, perché più ci si sposta in avanti nel tempo e più gli squilibri compromettono la struttura per età della popolazione indebolendo le capacità di risposta endogena. La denatalità passata, attraverso la riduzione delle potenziali madri, mette una ipoteca sempre più pesante sulla vitalità futura”. Leggevo su Repubblica quanto scritto da un altro celebre demografo. Francesco Billari della Bocconi sulle scelte tedesche, evocate in parte anche nel nostro studio: “La Germania, un paese la cui popolazione sembrava destinata a diminuire sensibilmente all’inizio del nuovo millennio, è passata da 80 a 83 milioni di abitanti tra il 2011 e il 2021. Nello stesso decennio, l’Italia ha invece registrato un calo da 60 a 59 milioni di abitanti. Cosa possiamo imparare dal caso tedesco? Innanzitutto, la risposta tedesca è “bipartisan”, con l’accordo sostanziale dei due partiti più rappresentativi”. Due sono le linee adottate: “La prima linea di politiche guarda al lungo periodo e si focalizza sulla natalità. Investire sui bambini e sui giovani, riconoscendone il valore anche sociale e alleviando i costi per le famiglie, che desiderano avere un numero di figli maggiore di quello che effettivamente hanno. Spendere di più su un’istruzione di qualità e inclusiva in una società multiculturale. Favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia per le donne e non solo. Stabilire assegni monetari che accompagnino fino alla maggiore età. Di conseguenza, in Germania il numero medio di figli per coppia è salito da 1,4 del 2011 a 1,6 dieci anni dopo. Nello stesso decennio in Italia questo numero è calato invece da 1,4 a 1,25; pur positive, le misure più recenti come l’assegno unico non saranno sufficienti per un rimbalzo deciso nei prossimi anni. La seconda linea di politiche guarda al presente e ai prossimi anni, e serve per “riempire i buchi” lasciati dal calo delle nascite negli anni passati, focalizzandosi sull’immigrazione. La Germania attrae lavoratori e migranti qualificati con le loro famiglie, con un picco durante la crisi dei rifugiati siriani nel 2015. Oggi è in prima linea con i rifugiati dall’Ucraina. Questa strategia basata sulle famiglie ha dato sia permessi per lavoratrici e lavoratori, rispondendo almeno in parte alle esigenze immediate del mercato del lavoro, sia linfa al sistema scolastico e al mercato del lavoro tra una decina d’anni con i loro figli. La strategia è stata accompagnata da maggiori investimenti nelle politiche di integrazione, più semplice quando invece di “braccia” si attirano famiglie”. Sarà bene, anche da noi, rifletterci per tempo e prima che sia troppo tardi.