Giorgio Napolitano, di cui piango la scomparsa alla fine di una vita intensa e piena di politica nobile e vera, è stato un esempio di rettitudine e pure un'amicizia preziosa. Ero capogruppo del "Misto" quando divenne presidente della Camera nel 1992 e resse per due anni quel ruolo nel pieno del marasma di "Tangentopoli". La frequentazione ravvicinata mi consentì di apprezzarne le doti professionali (la politica, con buona pace dei "borbottoni", ha una sua professionalità, che comporta studio e fatica) e umane. Poi io ero la "mascotte" della capigruppo ed il presidente - che non lesinava il suo sarcasmo con chi non gli risultasse proprio simpatico - ha sempre avuto con me un atteggiamento di simpatia. Così è stato anche al Parlamento europeo, quando eravamo gli unici italiani presidenti di Commissione. Specie a Strasburgo, quando facevamo le petit déjeuner assieme, visto che andavamo allo stesso albergo, così capitava di ascoltarlo davvero "dietro le quinte", mentre nelle occasione ufficiali non sbagliava mai una virgola con quel suo understatement con bagliori di ferocia per chi non capiva o fingeva di farlo. Esisteva in lui la scuola da cardinale del vecchio Partito Comunista Italiano, come altri che conobbi come Nilde Iotti, Giancarlo Pajetta, Ugo Pecchioli. Ma a questo si accompagnava uno spessore culturale non solo fatto dalla Politica, ma da quella logica da intellettuale a tutto tondo che ormai sta scomparendo con quella generazione. Vorrei qui ricordare la sua profonda conoscenza del Federalismo e fui onorato quando mi chiese di far parte della sua Associazione federalista, proprio considerandola una patente di quella serietà che non dispensava in modo così facile. Per questo mi era spesso capitato di cogliere in lui quella amarezza per il crescere nella politica, anche in ruoli importanti, di "parvenu" senza sostanza e pure di ladri. Lo votai con trasporto per il suo primo settennato e mi capitò spesso di incontrarlo. Sempre misurato e colto, ma - come mi è già capitato di scrivere - con sprazzi di umorismo partenopeo frammisto a quel distacco anglosassone, che gli ha creato odi e amori, come capita a molti politici di rilievo. Mi fa piacere evocare altri momenti, quando ad esempio quando ero Presidente della Regione accolse con gioia al Quirinale il Premio Saint-Vincent di giornalismo nel solco di una tradizione purtroppo a scomparsa e la sua visita in Valle d’Aosta nel 2011 mi valse un abbraccio nell’aula del Consiglio da consigliere regionale semplice. Proprio in quella occasione disse cose importanti sulla nostra autonomia speciale, che ben conosceva e rispettava. Ascoltò poi e si complimentò un mio discorso nell’aula del Senato sul regionalismo e l’Europa, quando ero Capo della delegazione italiana al Parlamento europeo. Ricordo come messaggio postumo per il futuro il passaggio memorabile di un suo discorso del 2014: "La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un'azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l'apporto finora largamente mancato della cultura, dell'informazione, della scuola”. Ciao, Giorgio!