Confesso le mie colpe: nelle scorse ore ho mangiato del tartufo e quindi, come da post stagionale, non posso che decantarne la bontà e gli effluvi. Possiamo farlo, partendo da distante. Perché il tartufo risulti, ab origine, così terribilmente e amabilmente profumato è un segno ben noto della necessità di perpetuare la propria specie, attirando quegli animali, come cinghiali, volpi o ghiri, che - allettati dall'odore penetrante (in frigo va imprigionato in una "burnìa" con il riso, che poi potete cucinare e magari metteteci delle uova, perché a contatto si aromatizzano anch'esse) - trovano il fungo sottoterra e se lo mangiano. Poi, con le loro deiezioni, spargono le spore: potenza del mondo vegetale, che noi umani sottostimiamo, non comprendendo i sottili fili che ci tendono per imprigionarci, fatti di colori, forme e sapori. Noi pensiamo di "catturarli", mentre le prede siamo noi. Gli antichi pensavano, invece, come Giovenale, che il "tuber terrae" nascesse per via di un fulmine di Giove, noto tombeur de femmes, posizione nota che serviva anche a propagare la notizia che il tartufo avesse preziose qualità afrodisiache. Provare per credere. Per molto tempo i linguisti, nello studiare l'etimologia della parola, partivano dal tardo latino "terrae tufer", mentre oggi pare certo che la parola viene dalla somiglianza - notata in epoca medioevale - fra il tubero e il tufo, la ben nota pietra porosa, da cui la catalogazione naturalistica "terra tufule tubera". Da lì anche il piemontese "trifula" e il cercatore "trifulau" con il suo indispensabile cane da ricerca. Parola poi emigrata in Francia con "truffe" ed in Inghilterra con "truffle". Faccio notare, a proposito dei cani, che il naso dei cani viene chiamato "tartufo". Non mi si dica che è un caso... Ma un minimo di esperienza da gourmet mi ha confortato sul fatto che la vera valorizzazione del prodotto come eccellenza gastronomica è recente e riguarda - almeno nel mio gusto personale - anzitutto il tartufo bianco piemontese e svetta fra i territori quello d'Alba. È in questa cittadina che inizio la storia più recente. Così la racconta il sito del "Centro Studi Beppe Fenoglio": «Nel corso della Festa vendemmiale del 1928, commissario prefettizio il commissario avvocato Francesco Viglino che era anche presidente del Comitato organizzatore di cui era segretario tesoriere Vittorio Paganelli, ebbe un grande successo, fra le varie mostre, quella dei tartufi, proposta da Giacomo Morra (1889 - 1963); era il primo tentativo di valorizzare un prodotto già conosciuto e largamente diffuso come simbolo di prestigio fra i contadini che omaggiavano di preziosi tartufi il medico di famiglia, il veterinario, il notaio, il farmacista, la maestra del paese e quanti ai quali, in qualche modo, si voleva rendere un doveroso atto di ossequio e riconoscenza. La mostra dei tartufi suscitò così tanto interesse che si decise di trasformare l'esposizione in mostra permanente con premi ai migliori pezzi presentati da trifolao e commercianti così, nel 1929, inserita nei festeggiamenti della Festa vendemmiale, si organizzò la "Fiera mostra campionaria a premi dei rinomati Tartufi delle Langhe". Si scelse come periodo il tardo autunno per cogliere il momento in cui il prezioso fungo sviluppava il massimo del profumo e del sapore». In meno di un secolo il fenomeno è esploso e oggi fa impressione constatare quanto business ruoti attorno alla "trifola", come si dice in piemontese e come non evocare l'eco di "trifolla", la patata in francoprovenzale. Da questo punto di vista confesso, avendo a suo tempo studiato la materia e persino predisposto una proposta di legge sui tartufi rimasta negli annali della Camera dei deputati (la numero 5921 del 19 aprile 1999), che sono sempre più stupito da due fenomeni. Il primo è l'eccesso di prodotto in giro, che presuppone l'esistenza di molto prodotto artefatto con tartufi di scarso valore di provenienza estera che viene truccato per essere spacciato per quello buono. Il secondo riguarda i rischi di aromatizzazione di prodotti vari "al tartufo", di cui sarebbe bene conoscere l'esatto trattamento. Sarebbe interesse dei trifulau onesti e dei trasformatori corretti pretendere un salutare repulisti, pensando al rischio di una perdita generale di credibilità. Per vostra curiosità vi segnalo quelle che erano segnalate nella legge appena citata come specie commerciabili: a) "Tuber melanosporum Vitt", chiamato anche "Tuber Nigrum Bull", usualmente chiamato tartufo nero pregiato, tartufo nero dolce, tartufo nero di Norcia o di Spoleto, tartufo nero del Penigord; b) "Tuber brumale Vitt", chiamato anche "Tuber brumale var moschatum Ferry de la Belonne", usualmente chiamato tartufo nero d'inverno, trifola nera o tartufo nero moscato; c) "Tuber aestivum Vitt", usualmente chiamato "scorzone" o tartufo nero d'estate; d) "Tuber uncinatum Chatin", usualmente chiamato "scorzone" o di Fragno; e) "Tuber mesentericum Vitt", usualmente chiamato tartufo mesenterico o tartufo nero ordinario, tartufo di Bagnoli o di Avellino; f) "Tuber magnatum Pico", usualmente chiamato tartufo bianco d'Alba o del Piemonte o tartufo buono di Acqualagna; g) "Tuber borchii Vitt", chiamato anche "Tuber albidum Pico", usualmente chiamato bianchetto o marzuolo; h) "Tuber macrosporum Vitt", usualmente chiamato tartufo macrosporo o nero liscio o grigio; i) vari tartufi del genere "Tuber", usualmente chiamati tartufo nero della Cina o dell'Asia o tartufo cinese o asiatico. Inutile dieci che il tartufo, per me, è quello alla lettera f) e vi risparmio i tecnicismi della leggina, tipo caratteristiche e classificazione assai utili contro le contraffazioni, che - con diverse tecniche ingegnose - possono trasformare in un tartufo bianco pregiato qualche "patata" insapore e per altro vasta comparare il "troppo" tartufo in giro con le quantità davvero rinvenibili in natura. Vi resti chiaro di diffidare fortemente dei prodotti alimentari dal gusto e odore di tartufo, cui dedicavo un articolo della mia proposta, che recitava: "Tutti i prodotti alimentari contenenti tartufo devono recare sull'etichetta l'indicazione della specie del tartufo utilizzato e della relativa quantità. E' vietato utilizzare sostanze aromatiche naturali o di sintesi per aromatizzare prodotti alimentari freschi o conservati". Quando si mangia del tartufo vero tra profumo e apprezzamento delle papille gustative, è difficile farsi ingannare e resta un'esperienza importante, che parte da un prodotto povero e semplice che ha raggiunto quotazioni da capogiro perché sa sposarsi con piatti che restano nella memoria, come la fonduta di "Fontina", l'uovo al tegamino, la carne cruda e i semplici "tajarin" (pasta all'uovo). Come la madeleine di Proust basta un pensiero per ritrovarsi nelle Langhe…