Capisco che talvolta - sarà l’età? - rischio di essere ripetitivo. Ma torno tambour battant sulle parole. Mario Postizzi, che scrive aforismi, ha detto: ”Nel vocabolario le parole sono allineate, stanno sull’attenti, hanno la faccia pulita. Appena si incrostano di realtà, rompono le righe e si liberano disordinatamente nelle piazze: allentano cintura e cravatta, mostrano la lingua e si sporcano le mani”. Già, le mani! Mi viene in mente quando da deputato partecipavo alle assemblee dei sordomuti e ce n’erano che, grazie ad apposita formazione, riuscivano comunque a parlare ed altri - affascinanti i loro movimenti delle mani - comunicavano con la lingua dei disegni, disegnando appunto nell’aria i loro discorsi. Più volte mi sono occupato della parole e della loro parabola discendente nell’uso comune. Leggevo di 250 mila unità lessicali della lingua italiana, senza contare le flessioni dei verbi e dei sostantivi: nel 2004, infatti, ammontavano a circa 2 milioni. Il livello più basso nell’uso personale sarebbe 6500, che crollano per alcuni con un vocabolario poverissimo a 2000. Ma soprattutto ci sono delle parole star che brillano e poi, come le stelle, si trasformano e collassano. Ha scritto sul Corriere Paolo Di Stefano: “Ecco un’altra parola che piace molto con «narrazione» e «storytelling». La parola è: «paradigma». E le espressioni più frequenti sono: «cambio di paradigma» e «nuovo paradigma». Che promettono molto senza precisare (e mantenere) niente. Si richiede ovunque un cambio di paradigma: nella salute, nella politica, nell’informazione, nel food. Il declino demografico impone un nuovo paradigma, l’educazione idem, alla difesa dei Paesi europei si impone un cambio di paradigma, così come al fisco, alle emozioni e alla psicologia. E figurarsi se l’intelligenza artificiale non obbliga a un cambio di paradigma. Persino la Pontificia Accademia di Teologia auspica un «cambio di paradigma», chiamando, come vuole il Papa, a una «coraggiosa rivoluzione culturale» verso una teologia meno astratta e più vicina ai contesti sociali. Non c’è nessuno in nessun settore pubblico e privato che non invochi un nuovo paradigma. Uno storico della scienza americano, Thomas Samuel Kuhn, elaborò nei primi anni 60 il concetto di «cambiamento di paradigma» come «rivoluzione scientifica» che supera i modelli precedenti, ormai desueti se non errati. L’uso vulgato attuale di «paradigma» non ha nulla a che fare con la scienza e ne fa piuttosto una parolina vuota e plurivalente: l’importante è affermare di volerlo cambiare, il paradigma, non importa quale, come e perché”. Annoto che anche storytelling mi pare finito abbastanza nel dimenticatoio. In Valle d’Aosta - e chi segue il Consiglio regionale lo sa bene - è invece esploso l’uso della parola “suggestione” come se si trattasse di “suggerimento”. È un uso che personalmente considero improprio. La Treccani propone tre definizioni. La prima: “Fenomeno della coscienza per cui un’idea, una convinzione, un desiderio, un comportamento sono imposti dall’esterno, da altre persone (la forma estrema è la suggestione ipnotica”. La seconda: “Con significato più generico e attenuato (vicino a quello di suggestività, fascino)”. La terza testimonia l’uso che a me non piace: “Termine usato talora impropriamente con il significato. di «suggerimento» (per influenza dell’inglese suggestion, che ha questo come significato principale)”. Nel caso valdostano è probabile che possa derivare più dall’uso simile che si fa in francese. Il fenomeno linguistico è interessante e si chiama “calco semantico”, vale a dire il caso di una parola che, avendo un suo significato in una lingua, per analogia con una parola di forma simile di un'altra lingua ne acquista un altro (che in alcuni casi finisce col soppiantare il primo). Per cui questa spiegazione mi porterà a sopportare con pazienza la…suggestione.