Non avevo ancora avuto modo di vedere il film italiano che ha sbancato il botteghino con più di 32 milione di incasso e l’ho visto - ed ero molto curioso - solo in queste ore. Si tratta di ”C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, che ne è regista e principale interprete. La Cortellesi - ma certo non sono esperto del ramo - mi è sempre parsa un’attrice molto ”all’americana" e cioè poliedrica, dunque capace di passare dal comico al drammatico, dal canto al ballo e naturalmente alla recitazione. Ma mi pareva che mai si fosse affermata in pieno, quanto avvenuto questa volta con un film tutto suo. Il film è la storia di Delia, donna che, nella Roma del 1946, ha tre figli e un marito, Ivano (Valerio Mastrandrea), che la picchia tutti i giorni. Per guadagnare fa tre lavori diversi e per sé non tiene quasi nulla. La figlia maggiore, Marcella (Romana Maggiora Vergano), vorrebbe studiare, ma in quanto donna, viene invece incitata a sposarsi. Quando effettivamente arriva un pretendente di una famiglia ricca, i genitori non vedono l’ora di chiudere il fidanzamento. A Delia però arriva una lettera, che mette in discussione le sue scelte: lasciare la famiglia? Scappare con il primo amore, Nino (Vinicio Marchioni), che fa il meccanico e le propone di fuggire al Nord con lui, lasciando il marito. Mi limito a questo: il finale ha a che fare con il primo voto alle donne del 2 giugno 1946, quando si votò per il referendum che scelse la Repubblica al posto della Monarchia e anche per l’elezione della Costituente, di cui fecero parte 21 donne. Il film, girato in bianco e nero ma con musiche di oggi, ha molti pregi e direi il respiro giusto in un racconto che fa sentire l’aria di quei tempi pieni di speranza. Vi è qualche difetto in aspetti caricaturali e nei meccanismi del racconto e sono corre il rischio di far pensare a generazioni (quella dei miei nonni) in cui la violenza domestica fosse il pane quotidiano e per fortuna così non era in tutte le famiglie e ho buona memoria della compostezza e del rispetto in vecchie coppie che ho conosciuto. Tuttavia, il film ha intercettato un problema che ormai pare senza tempo, quello della brutalità di molti uomini sino al fenomeno agghiacciante delle aggressioni e delle uccisioni di donne di tutte le età. Non è certo un caso se il termine “Femminicidio” è stato scelto dalla Treccani come parola del 2023. In una bella intervista del mio amico Valter Veltroni, così dice sul tema la Cortellesi: ”Non smettono, lo vediamo ogni giorno. Sono il segno di un’idea di possesso maschile che è dura a morire. Però, specie dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, ho visto dei segni importanti di risveglio della coscienza, specie tra i giovani. Nelle manifestazioni c’erano tante ragazze, ma anche tanti ragazzi che si stanno mettendo in discussione. Mi sembra che si stia imparando a coltivare le parole giuste e lo si faccia insieme, donne e uomini”. Parole simili le ha riportate anche Le Monde, dovendo uscire in questi giorni il film anche in Francia. Prosegue Cortellesi: ”Volevo raccontare i diritti delle donne. In particolare di quelle donne che non si è mai filato nessuno. Ho ascoltato tanti racconti di nonne e bisnonne che hanno vissuto quel tempo. Per questo il film è in bianco e nero, perché quando loro parlavano io le immaginavo così, le loro storie. Storie raccontate con disincanto, quasi con fatalismo”. E ancora: ”Volevo raccontare i diritti delle donne. In particolare di quelle donne che non si è mai filato nessuno. Ho ascoltato tanti racconti di nonne e bisnonne che hanno vissuto quel tempo. Per questo il film è in bianco e nero, perché quando loro parlavano io le immaginavo così, le loro storie. Storie raccontate con disincanto, quasi con fatalismo”. Già, la Iotti: era Presidente della Camera quando venni eletto la prima volta. Mi capitò spesso di parlare con lei e anche dei suoi ricordi valdostani con le vacanze da noi con Palmiro Togliatti, un amore proibito affrontato con coraggio in un partito bacchettone e se non ne pagò il prezzo era perché era accanto al Migliore, leader non discutibile. Era una donna forte che rappresentava a pieno le capacità femminili in politica in quel dopoguerra vissuto con un afflato di libertà. Così lo stesso finale del film della Cortellesi - una sorta di ritorno al neorealismo cinematografico del dopoguerra - è una commovente luce nel buio della vita di una persona vessata. Forse un happy end.