Parlare di questioni internazionali è sempre come camminare sulle uova. Eppure bisogna tenerne conto.
La geopolitica è fondamentale oggi perché il mondo è sempre più interconnesso e le tensioni tra Stati, economie e culture influenzano direttamente la vita quotidiana delle persone e delle comunità.
Il termine “geopolitica” - oggi così adoperato - non è recente, perché venne coniato dal geografo e politologo svedese Rudolf Kjellén (1864-1922), che all’inizio del XX secolo sviluppò il concetto per descrivere l’interazione tra geografia e politica nella strategia degli Stati.
Oggi la materia è sempre più matura e lo dimostra il lavoro importante di un partner della Valle d’Aosta come Grand Continent. Il nome Grand Continent è stato dato da un gruppo di giovani studiosi ad una rivista online fondata a Parigi nel 2019, dedicata alla geopolitica, alle questioni europee, giuridiche, nonché al dibattito intellettuale e artistico. Il suo obiettivo è costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale su scala continentale.
Oggi è un vero e proprio un think tank fatto da ricercatori, accademici, decisori politici, esperti e artisti di rilievo internazionale e il Sommet annuale si svolge nella valdostana Saint-Vincent grazie anche al fatto che uno dei “motori” e fondatori è stato il valdostano Gilles Gressani.
Nello scenario mondiale mi compiace molto la questione palestinese e quanto sta accadendo in Israele, Paese per il quale ho sempre nutrito una grande ammirazione e dunque questa è la mia manifesta visuale.
Seguo quanto sta avvenendo con questa tregua appesa ad un filo e mi sono fatto alcune convinzioni.
Finché Hamas sarà la rappresentanza politica dei palestinesi la famosa pace su cui apparentemente tutti convergono resterà difficile e fragile.
Questa organizzazione politica, considerata terrorista in Occidente per buone ragioni, malgrado certi tentativi di maquillage, parla ancora di “distruzione di Israele” perché, nonostante - come diceva - alcune modifiche nel linguaggio politico di Hamas, l’organizzazione non ha mai ufficialmente riconosciuto Israele e continua a sostenere la lotta armata contro di esso con evidente furore ideologico.
Spettacolare, in questo senso, la messa in scena impressionante della liberazione di alcuni ostaggi israeliani in queste ore.
Su X, a caldo, ho scritto un post: “Hamas consegna gli ostaggi israeliani in un clima di violenze e minacce, con i terroristi bardati come ridicoli ma spaventosi ninja”.
Mi ha colpito quanto scritto ieri su La Stampa da Assia Neumann Dayan, autrice televisiva e scrittrice italiana. Riporto alcuni passaggi, che certo non convinceranno gli antisemiti, ma scalderanno il cuore a chi non si fa abbacinare da Hamas.
Ecco: “C'è una ragazza sola in mezzo a centinaia di uomini. Una folla di maschi, di tutte le età, con un mitra o un telefono in mano. Terroristi, civili, bambini. La riprendono, la spingono, la vogliono linciare, le urlano addosso. La ragazza è scavata, terrorizzata, con gli occhi vuoti.
Quella ragazza si chiama Arbel Yehud ed è rimasta sepolta viva per 482 giorni in un tunnel, da sola. Non ci sono altre donne, c'è solo lei. E c'è solo lei anche fuori, perché l'Un Women, le organizzazioni per i diritti umani, le parlamentari che dicono di lottare per le donne, quelle che si fanno venire le crisi isteriche per Tony Effe, quando c'è Israele di mezzo si mettono in modalità mutismo selettivo.”.
Il silenzio in certi casi è il peggio. Ci sono manifestazioni di piazza assenti, come per le donne iraniane perseguitate dal regime degli ayatollah.
Ma torniamo al commento: “Hamas ha deciso di far fare la passerella solo alle donne. Dei cinque ostaggi thailandesi liberati non è importato niente a nessuno. Gadi Moses, 80 anni, è passato dritto in mezzo agli assassini che hanno ammazzato la sua compagna il 7 ottobre. Il disprezzo per le donne passa sopra e sotto quel palco, passa attraverso quella folla di terroristi e civili, nel certificato di rilascio, tra le mani della Croce Rossa che si presta a questa farsa confermando il senso del modo di dire «è come sparare sulla Croce Rossa», nel silenzio generale di quelle che non sanno nemmeno dire che cos'è una donna, e io per quindici mesi ho visto solo un lunghissimo atto di fede nei confronti di questi uomini.
Questo succede perché esistono persone che non sanno bere un bicchiere d'acqua. È una cosa facile: prendi il bicchiere, ci metti l'acqua, apri la bocca, bevi. Non riuscire a riconoscere l'orrore quando lo vedi, ma sentire come primo istinto quello di dire «eh però Israele» è esattamente come non saper bere. E se non bevi muori, è selezione naturale. Non riconoscere che quello che abbiamo visto è un punto da cui nessuno torna indietro, per l'impressione che fa, per il senso che restituisce, per lo spavento che si prova, è non capire che non saranno i cocomeri e le bandierine sui social a salvarti la vita in mezzo a gente col mitra in mano. Non salverà nessuno dire che le ragazze sono state trattate bene, che si sono innamorate, che quella di Hamas è Resistenza, perché quando l'uomo con la bandierina palestinese nel profilo incontra il terrorista palestinese, l'uomo con la bandierina è un uomo morto”.
Mi fermo qui nella citazione e a quel «eh però Israele», che è diventato il lasciapassare per i terroristi assassini”.