Ma com’è possibile che mi occupi di questi tempi di vicende geopolitiche più grandi di me e della dimensione politica della piccola Valle d’Aosta?
Ci pensavo a Bruxelles, dov’è partita la nuova legislatura del Comitato delle Regioni e dove ho avuto la possibilità di respirare la viva preoccupazione per gli scenari che si stanno definendo nel mondo.
Trump e Putin trattano sulla “pace” in Ucraina senza gli ucraini, che sino a prova contraria - impossibile da dimostrare neppure dai filorussi italici - sono stati gli aggrediti in un disegno aggressivo e imperialista del dittatore russo. Esemplare quel che scriveva ieri sul Corriere Aldo Cazzullo: “Ci siamo già detti che difficilmente l’Europa, con i suoi eserciti concepiti e organizzati per il peace keeping, può affrontare da sola una lunga e incerta guerra con una potenza nucleare come la Russia. E certo l’America di Trump non la difenderà. Facile previsione: l’Europa cederà ancora, e Putin avanzerà ulteriormente”.
Una guerra d’invasione in un Risiko russo che mira a riavere una sorta di Patto di Varsavia Il Patto di Varsavia, che fu un’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e i paesi del blocco comunista dell’Europa orientale in piena “guerra fredda”. La minaccia obbligherà l’Europa ad armarsi seriamente e l’uscita dalla spese belliche dal Patto di Stabilità comunitario che restringe la spesa pubblica ne è la premessa tecnica. Ricordo come la mancata nascita di un esercito europeo sia una vicenda che affonda le sue radici nella storia della costruzione dell’Unione Europea e nei rapporti tra gli Stati membri in materia di difesa. L’idea di un esercito comune europeo è stata più volte discussa, ma vari fattori politici, strategici ed economici ne hanno - e io dico purtroppo- impedito la realizzazione.
Dobbiamo tornare negli anni ’50 per evocare i primi fallimenti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti spingevano per il riarmo della Germania Ovest all’interno della NATO, ma Francia e altri paesi europei erano riluttanti a permettere la rinascita di un esercito tedesco autonomo.
Nel 1950, il primo ministro francese René Pleven propose la Comunità Europea di Difesa (CED), un progetto per un esercito europeo sotto il controllo delle istituzioni comunitarie. Il trattato della CED venne firmato nel 1952 da Francia, Germania Ovest, Italia e dai paesi del Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). Tuttavia, nel 1954 il parlamento francese, temendo una perdita di sovranità nazionale e diffidando della Germania, bocciò il trattato, segnando il fallimento del progetto con giubilo del Generale Charles De Gaulle.
Dagli anni ’90 ai giorni nostri ci sono stati tentativi anch’essi naufragati. In effetti c’è stato un qualche rafforzamento della cooperazione in materia militare, ma sempre senza arrivare alla creazione di un vero esercito europeo. Molti Paesi non vogliono cedere il controllo delle loro forze armate a un’entità sovranazionale alla luce anche di diverse visioni in politica estera e di difesa.
Per altro, l’alleanza nella NATO, di recente allargatasi a Finlandia e Svezia, dei Paesi europei con gli Stati Uniti ha garantito sinora la sicurezza, rendendo meno urgente - per me solo in apparenza - un esercito europeo.
Negli ultimi anni, con le crisi internazionali e l’invasione russa dell’Ucraina, il dibattito sulla difesa europea è tornato attuale e ora siamo con Trump e i suoi disegni comprensibili e incomprensibili.
Alcuni leader europei, come Emmanuel Macron, spingono per una maggiore autonomia strategica, ma il progetto di un esercito europeo è ancora in embrione.
Capita a fagiolo un commento del grande inviato - anche su scenari di guerra - Lorenzo Cremonesi sul Corriere che si chiede: “Perché mai gli americani dovrebbero pagare e morire per la sicurezza europea? Al netto dei modi brutali di Donald Trump e dei suoi collaboratori, almeno su un punto fondamentale il nuovo presidente Usa esprime istanze legittime e ribadisce messaggi che erano nell’aria da oltre due decenni. Già negli anni ‘90 militari americani erano intervenuti nella ex Jugoslavia, una crisi che riguardava anche noi italiani da vicinissimo, ma che le nostre opinioni pubbliche e i governi preferivano per lo più ignorare. Dopo gli attentati di Al Qaeda nel 2001 ci siamo definiti «tutti newyorkesi», ma i nostri contingenti mandati poi in Afghanistan in appoggio alle truppe americane, con il consenso Onu, avevano regole d’ingaggio e modi operativi inadeguati. Parlavamo di «missioni di pace» e non eravamo equipaggiati per fare fronte a una situazione di guerra. Noi, i francesi, i tedeschi, trattavamo sottobanco con i talebani per evitare di essere attaccati, e poi quando c’era davvero da togliere le castagne dal fuoco intervenivano i Marines, semmai assieme agli inglesi, che la guerra — loro sì — la sapevano fare davvero. Lo stesso è valso in Iraq (una situazione diversa da quella afghana), dove comunque erano gli americani a combattere. Il flop di Nassiriya fu anche frutto delle nostre inadeguatezze. Contro gli estremisti islamici in Iraq, in Siria, in Libia sono stati gli americani a battersi. La dottrina di Isis mirava a colpire l’Europa. Da Sirte i jihadisti di Al Baghdadi volevano arrivare a Roma nel 2016, noi mandammo in ritardo un inutile ospedale a Misurata dove — era scritto — «non si curano ferite per armi da fuoco» “. In modo ruvido Cremonesi viene al punto: “Perché mai gli americani dovrebbero difenderci da Putin, che dall’Ucraina minaccia l’intera Europa, mentre oltretutto tra i nostri intellettuali e non solo permane un diffuso antiamericanismo? Nella Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti ci salvarono dal nazifascismo e ora a Monaco il vicepresidente Vance ha abbracciato i suoi nuovi adepti. Un trauma che serve per svezzarci: se non ci difendiamo da europei, se non paghiamo per le nostre armi, se non siamo pronti a combattere veramente, siamo destinati a soccombere”.
Analisi perfetta.