Sono un grande fautore dello stupore che sarebbe – da dizionario – all’incirca “Forte sensazione di meraviglia e sorpresa, tale da togliere quasi la capacità di parlare e di agire”.
Ovvio che intenda lo stupore in positivo, quello che spicca quando si è bambini, ma mai dev’essere abbandonato e personalmente per ora – ma in fondo spiegherò – mi capita pressoché giornalmente di provarlo.
Che sia un luogo, una frase, un pensiero, un colore, una musica: poco importa, in fondo, il contesto, perché conta la sostanza dell’evento.
Facile che venga in mente la Sindrome di Stendhal, dal nome dello scrittore francese che per primo sperimentò questa sensazione di sopraffazione dinnanzi al bello, proprio in una delle città più ricche di arte al mondo, la nostra Firenze. “Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
Così Marie-Henri Beyle, Stendhal per l’appunto, descrive quel senso di vertigine misto a tachicardia che per la prima volta lo colpì nel celeberrimo complesso monumentale fiorentino. Santa Croce, che l’autore visitò nel 1817 in occasione del suo Grand Tour, ancora oggi conserva le spoglie di alcuni dei personaggi più illustri della storia come Michelangelo o Galileo.
In realtà la Sindrome venne descritta, per i suoi usi medici ma con riferimento all’episodio sopra descritto, per la prima volta dalla psichiatra italiana Graziella Magherini negli anni 70. Studiando oltre un centinaio di casi non a caso tra i turisti a Firenze, osservò che alcune persone manifestavano sintomi come vertigini, tachicardia, confusione e ansia di fronte a opere d’arte particolarmente suggestive.
Certo, spicca lo stupore – per chi ha avuto la fortuna di essere padre o nonno (ed evito l’asterisco per estendere eguale sentimento al femminile…) – dei bambini, alimentato dalla naturale curiosità e apertura verso il mondo che li circonda per un’evidente voglia e necessità di scoprire quanto avviene attorno a loro. Questo permette loro di provare stupore nella sua forma più pura, che ancora accelera – con grandi contrasti ed emozioni e meno innocenza puerile – nell’età adolescenziale, spinta sempre più avanti con l’età.
C’è una bella frase ne “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry: “Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)”. Gli può far eco Gianni Rodari: “"I bambini hanno una capacità innata di sorprendersi. Dobbiamo imparare da loro a vedere il mondo con occhi nuovi ogni giorno".
A convincerci di non perdere questa dote un brano ruvido e conclusivo di Natalia Ginzburg: “La vecchiaia vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto; e gli altri non si meraviglieranno di noi, sia perché ci hanno già visto fare e dire stranezze, sia perché non guarderanno più dalla nostra parte. [...] L'incapacità di stupirsi e la consapevolezza di non destare stupore farà sì che noi penetreremo a poco a poco nel regno della noia. La vecchiaia s'annoia ed è noiosa: la noia genera noia, propaga noia intorno come la seppia propaga l'inchiostro. Noi così ci prepareremo ad essere assieme e la seppia e l'inchiostro: il mare intorno a noi si tingerà di nero e quel nero saremo noi: proprio noi che il colore nero della noia l'abbiamo odiato e rifuggito tutta la vita. Fra le cose che ancora ci stupiscono c'è questo: la nostra sostanziale indifferenza nel sottostare a un simile nuovo stato. Tale indifferenza è provocata dal fatto che a poco a poco veniamo cadendo nell'immobilità della pietra”.