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17 mag 2025

Le cose con il loro nome

di Luciano Caveri

Si avvicinano in Valle d’Aosta le elezioni regionali di settembre, passaggio democratico importante per una piccola autonomia speciale.

Difficile spiegare ai non valdostani quanto questa competizione democratica scaldi il cuore e crei una crescente tensione.

Negli anni sono sempre più cresciute le liste in lizza e il numero dei candidati partecipanti. Un gigantismo, rispetto alla piccola taglia della Valle, che si innesta su una passione profonda nei confronti delle competizioni elettorali. Anche se la partecipazione, l’impegno e la cultura politica non godono di buona salute, quando si approssimano le campagne elettorali risale in superficie una passionaccia che unisce e divide a seconda delle situazioni.

Come sempre, dunque, al clima ordinario della politica valdostana che già sa di vedersi in fretta in fazioni si sostituisce il clima straordinario, che porta con sé inevitabilmente una ridda di polemiche fondate e polemichette vacue.

Bisogna mantenere la calma, laddove possibile, e prendere atto di come anche i meccanismi democratici abbiano i loro difetti, che si sommano ai difetti che ciascuno di noi ha.

Ad esempio - specie in questa fase in cui sentiremo tutto e il suo contrario - resto ancorato, per carattere, al chiamare le cose con il loro nome, senza ipocrisia o ambiguità.

Viene in mente quel proverbio “dire pane al pane e vino al vino”, che si è affermata nella tradizione popolare italiana, probabilmente a partire dal Medioevo o dal Rinascimento, epoche in cui pane e vino erano gli alimenti più comuni e simbolici della vita quotidiana e religiosa (pensiamo Sono in fondo necessari pochi elementi e cioè la chiarezza e cioè dire le cose come stanno, senza ambiguità. Aggiungerei la preziosa onestà intellettuale per non travisare la realtà. E infine - mio difetto capitale, la franchezza e cioè essere schietti, anche a costo di risultare scomodi.

Al suo contrario, c’è il francesismo "langue de bois”, quando si sceglie un linguaggio vago, stereotipato, vuoto o manipolativo, spesso utilizzato per evitare argomenti delicati, sfuggire - specie in politica - ad utili compromessi e soprattutto e purtroppo per mascherare la realtà. L'espressione deriva dal russo: "дубовый язык" (doubovy yazyk), letteralmente "lingua di quercia", usata in URSS per designare un linguaggio rigido, dogmatico e fisso, tipico della propaganda sovietica.

Un ambiente tossico in tutte le dittature.

Questa espressione è stata ripresa e tradotta in Francia nel XX secolo, soprattutto a partire dagli anni Settanta, per criticare il linguaggio strutturato e impersonale delle élite politiche e amministrative.

Viene in mente un'espressione che descrive anch'essa certe logiche di divisione e di lite di paese, ma questa volta sulle nostre montagne e non al mare. Mi riferisco a quel «Cogne roudze Cogne» («Cogne rosicchia Cogne»), usato da quella bizzarra personalità che fu quel César-Emmanuel Grappein, medico e pure sindaco di quel paese. che con le sue azioni innovatrici e talora discutibili sortì polemiche e liti specie proprio a Cogne.

Ebbene, l'uso proverbiale di questa espressione, quasi una maledizione, si è espanso in tutta la Valle d'Aosta a dimostrazione che anche da noi alberga il rischio di dividersi e di farsi del male in un polemica continua, che finisce per avvelenare tutto e far perdere tempo in querelles infinite. Questo vale anche in politica, quando si dovrebbe invece stare uniti su obiettivi comuni ed è un esercizio per nulla impossibile il seme della discordia.

 Ricordo la parabola della zizzania presente nel Vangelo secondo Matteo, che ricorda - ammonimento sempre valido - del buon seme la cui crescita è disturbata dalla zizzania.

Resta inteso che parlo delle polemiche inutili e non di quella verità che è sempre bene perseguire anche nell’azione politica.