Mi chiedo, mentre scrivo, se questo testo - letto con la mia voce come si fa nei podcast - sarebbe più appetibile.
Scrivo ”mia voce”, perché già oggi, con il comando presente nelle sbarrette in alto a sinistra, una voce robotica può farlo. Ma certo se a leggere è l’autore, tutto assume un tono diverso, più vissuto.
Questo inseguirsi fra scritto ed orale è interessante e dobbiamo farci attenzione.
Lucio Iaccarino, esperto di comunicazione, scrive così su Huffpost e bisogna rifletterci: ”Viviamo in un mondo che ha insegnato a comunicare in modo autoreferenziale, dove parlare di sé è diventato più urgente che ascoltare l’altro. Un egocentrismo dilagante spinge verso la spiegazione continua di ciò che siamo, come se la conoscenza del sé esaurisse quella del contesto in cui agiamo. In un certo senso, sono i social network ad averci cambiato, perché hanno sostituito il dialogo con la narrazione che offriamo al mondo di noi stessi. Foto, meme, citazioni e testi lampo raccontano brandelli di vita, spesso più costruiti che spontanei. È il trionfo dell’immagine ostentata e della brevità, ma a quale prezzo?”.
Mi viene in mente, per citare il proseguo, come fosse un tempo il rapporto con il telefono e le conversazioni, spesso infinite, che da ragazzi facevano arrabbiare i nostri genitori. Quando ho avuto i primi soldi in tasca, filavo in un albergo vicino a casa, che avevano il telefono a scatto, perché mia mamma si lamentava delle bollette telefoniche troppo alte per supposta colpa mia.
Iaccarino osserva: ”Un tempo le telefonate erano il terreno naturale della voce, con le loro esitazioni, i silenzi, le inflessioni non sempre perfette ma autentiche. Oggi sono state soppiantate dai messaggi vocali, registrazioni riascoltabili e cancellabili, come se la spontaneità fosse diventata un rischio da evitare. Eppure, paradossalmente, quegli stessi audio sono percepiti come fastidiosi, lunghi, pesanti da digerire, poco compatibili con la fretta digitale. Tanto che si è diffusa una sorta di “galateo della voce”: prima di inviare un audio, molti chiedono scusa con frasi come “perdonami se ti faccio un vocale, ma mi risulta più semplice”. È la conferma che anche l’oralità, la forma più immediata di comunicazione, rischia di essere ingabbiata dalle regole della velocità”.
Possibile che ci si faccia influenzare da queste logiche rinvenibili anche nei filmati alla TikTok, che si susseguono a ritmo vertiginoso, abbassando sempre di più la soglia di attenzione, oltretutto obnubilati dall’algoritmo che fissa contenuti perché spia gusti e preferenze di noi utenti.
Ma alla fine questo vale anche per i testi scritti, come in effetti l’autore dice più avanti: ”Questa comunicazione bruciante non concede tregua. Un messaggio testuale troppo lungo viene spesso ignorato, salvo che per ragioni lavorative o strettamente personali. I testi sono talvolta accompagnati da una dicitura che stima il tempo di lettura come se fossimo dinanzi ad un avvertimento implicito che invita a evitare tutto ciò che richiede troppo impegno. Si legge l’incipit, si scorre il testo, in un eterno scanning che allena più la vista che la mente. Si procede per parole chiave, saltando da un rigo all’altro, scansando preposizioni, frasi incidentali e dettagli narrativi. È una pigrizia collettiva che ci abitua a titoli senza testi, a storie senza contesto”.
Ma eccoci alla parte più originale del ragionamento di Iaccarino: ”Quando sperimentiamo online la brevità, la velocità, l’interruzione continua, finiamo per replicarla inconsapevolmente anche dal vivo. In questo senso, il legame tra comunicazione digitale e comunicazione fisica è biunivoco. Nn Non è solo lo schermo a plasmare i nostri modi di parlare, ma sono le nostre abitudini quotidiane a confermare e rafforzare quei modelli.
Rappresentando il proprio sé ogni giorno sui social, la conversazione nel mondo reale assume i tratti di una chat fatta di battute brevi, poca attesa, minore profondità, ricerca dell’emozione istantanea".
Scompaiono l’attenzione e la capacità di ascolto: ”L’ascolto richiede lentezza e presenza emotiva, mentre è relegato ai margini, a causa di un’urgenza che spinge a produrre contenuti e rilanciarli di continuo.
Il risultato è che ci raccontiamo molto e ci comprendiamo poco. La grande sfida della comunicazione contemporanea non è aggiungere parole al rumore di fondo ma recuperare la pratica dell’attenzione, riconquistare l’ascolto come spazio d’incontro autentico, restituire un’idea di dialogo che resista alla fretta e al clamore”.
Tornarci non è per nulla banale e ognuno si deve sforzare per farlo.