Non sono mai stato fermo, sia da giornalista che da politico. Sono sempre stato, per mia fortuna e per scelta, tipo Tarzan.
Così in certi passaggi trovavo una liana, come avviene nella giungla per il buon selvaggio, che venne creato nel 1912 dallo scrittore americano Edgar Rice Burroughs. L’afferravo e mi spostavo per fare qualche cosa di nuovo.
Ho sempre avuto questa necessità di trovare novità. Potrei usare quel latinismo “horror vacui”che, nato nel contesto artistico, può anche essere usato in senso figurato per descrivere la tendenza a riempire ogni spazio, tempo o silenzio con contenuti e cose da fare. per paura del vuoto e dell'inattività.
Questo è quanto rispondo a chi, amico o persino avversario, mi chiede cosa farò adesso, sapendo che in genere è noto il mio attivismo, che sarebbe - da dizionario - la tendenza a vivere in modo estremamente dinamico e attivo.
Abituato a farlo, ovviamente temo il peggiori nemici dell’invecchiamento: non far girare le rotelle del mio cervello e appunto il tempo vuoto.
Ricordo il mio collega parlamentare, César Dujany, con cui convivemmo la rappresentanza della Valle d’Aosta, eletti assieme nel 1987 e nel 1992, lui al Senato e io alla Camera. Sulla carta saremmo stati perdenti, invece vincemmo alla grande. la prima volta io avevo 28 anni e lui 67, la stessa età che io compirò a Natale.
Ebbene, César morì nel 2019, a pochi mesi dai 100 anni. Quel che mi colpiva, quando lo incontravo - ancora le ultime volte prima della sua scomparsa - era la sua lucidità mentale, fatta di lettura attenta dei giornali e dei libri di cui mi descriveva i contenuti. Ma, nei colloqui, commentava anche la politica regionale e pure episodi di vita del suo paese, Châtillon. Una curiosità intellettuale che lo manteneva più giovane della sua età anagrafica.
Mi sembra un esempio importante, un modello di riferimento, che avevo anche in famiglia con mio papà Sandro che, ormai ottantenne manteneva vivo il suo lavoro di veterinario e il suo spirito arguto di battutista e barzellettiere.
Tuttavia, l’altro giorno, come un lampo nel buio del dispiacere per la recente sconfitta elettorale, trovo una frase del nuovo Pontefice Leone XIV, che suona così: “Noi - ha detto qualche settimana fa in un'udienza generale - facciamo fatica a fermarci e a riposare. Viviamo come se la vita non fosse mai abbastanza. Corriamo per produrre, per dimostrare, per non perdere terreno. Ma il Vangelo ci insegna che saperci fermare è un gesto di fiducia che dobbiamo imparare a compiere".
Ebbene, così intendo - dando risposte vaghe a chi mi chiede cosa farò - questa pausa di riflessione in corso. Certo non fatta da logiche depressive o di avvilimento, ma da ragionamenti su di me e su eventuali scenari futuri tutti da dimostrare.
C’è un verso di una poesia di Salvatore Quasimodo che descrive il mio stato d’animo.
Ecco il verso: "...e ogni pausa è cielo in cui mi perdo, serenità d'alberi a chiaro della notte."
È tratto dalla poesia “Fresca marina", contenuta nella raccolta "Acque e terre".
Questo verso, che segue l'apostrofe "Se mi desti t'ascolto", esprime un profondo senso di serenità, che vorrei possedere anche in momenti incerti.
Così in “e ogni pausa è cielo in cui mi perdo" la “pausa" può riferirsi sia a un momento di silenzio o interruzione nel flusso della vita o della parola, sia a uno spazio di sospensione interiore. Questo momento di stasi diventa un "cielo", un'immagine di infinito, dove ci si può può "perdere serenità d'alberi a chiaro della notte":
Nella poesia la vita dell'uomo viene assimilata al moto del mare e la "pausa" rappresenta appunto la possibilità di sottrarsi al flusso incessante del tempo e delle onde (della vita) attraverso un momento di riflessione.
Pensieri troppo aulici rispetto alla realtà? Però mi sento così per poter fare scelte concrete, se possibili.