Le parole-slogan

Viviamo in un mondo che tende a semplificare le cose e e la brevità diventa la regola. Da sempre esistono gli slogan che dettano la linea.
La forza dello slogan la si capisce da bambini. Ancora oggi ricordo certi slogan del Carosello della mia infanzia. Tipo: “Brava brava Mariarosa” (lievito Bertolini); “Che c’ho scritto… JoCondor?” (Nutella); “È un’ingiustizia, però!” (Calimero per Ava); “È già mezzogiorno, mezzogiorno di cuoco” (carne Montana).
In politica ho spesso lavorato sugli slogan delle campagne elettorali, cercando la giusta chiave di lettura a favore dell’opinione pubblica.
Ricorda Federico Faloppa su Treccani la storia della parola “slogan”: “Derivato dallo scozzese (slogorne o sloghorne), voce a sua volta derivata dal gaelico sluaghghairm «grido di guerra», composto di sluagh «esercito» e gairm «grido», il termine è entrato in italiano – attraverso l’inglese – solo all’inizio del ventesimo secolo. Prima, come ricorda l’autore della voce Slogan nell’Enciclopedia dell’Italiano Treccani Andrea Viviani, in italiano si usavano sentenza e motto per esprimere lo stesso concetto, ovvero «formula sintetica, espressiva e facile da ricordarsi, usata a fini pubblicitari o di propaganda»”.
Oggi constatiamo come certe parole diventino slogan sinteticissimi e la loro fortuna nasce e tramonta in un battibaleno. Pensiamo al destino di “resilienza”, termine ormai abusato, il cui acme è nell'acronimo "PNRR", che per esteso suona come ”Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza" “.
Simona Cresti sulla "Treccani" cita sul tema della parola-slogan un altro autore: «Stefano Bartezzaghi la definisce "parola-chiave di un'epoca", sottraendola al rapido declino cui sarebbe destinata in quanto semplice "parola alla moda". "Resilienza" assume un valore simbolico forte in un periodo in cui l'accesso interpretativo più frequente alla condizione economica, politica, ecologica mondiale è fornito da un'altra parola, "crisi": lo "spirito di resilienza" rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale”.
Esce dal palcoscenico “resilienza” e arriva, crescendo piano piano in potenza, la parola prezzemolino “sostenibilità” e si sta facendo con una tale prepotenza da diventare invadente e dunque antipatica.
Tutto ormai è “sostenibile”: dalle etichette delle merci più varie sulle scansie dei supermercati ai bilanci aziendali che devono dimostrare nei bilanci di sostenibilità quanto siano bravi nel complessivo rispetto per l’Ambiente.
In realtà “sostenibilità” è una vecchia storia, che gode di una ritrovata giovinezza, perché il concetto cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
La Conferenza di Stoccolma ha attirato l’attenzione internazionale principalmente sulle questioni relative al degrado ambientale e all’inquinamento. L’attuale concetto di sostenibilità cominciò a diffondersi negli anni ‘80 e venne adottato ufficialmente a Stoccolma, in Svezia, nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
Successivamente, nel 1992 alla Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, detta anche Il Summit della Terra, i capi di Stato mondiali si sono riuniti affrontando per la prima volta a livello globale le emergenti problematiche ambientali. In questa occasione, il concetto di sviluppo sostenibile è stato consolidato come “uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Da allora, il termine sostenibilità è stato incorporato e utilizzato dalla politica, dalla finanza, dai mass media e in mille altre attività. Sino all’attuale popolarità, prima che finisca anch’essa nel cassetto polveroso delle parole abusate, quando diventano troppo di moda.

L’accanimento da Cronaca nera

Anche io mi sono occupato, quando ero un giovane giornalista, della cronaca nera, come si chiama in linguaggio giornalistico per un’analogia fra il colore scuro con drammi e tragedie mai a lieto fine.
Tanti incidenti stradali, rari omicidi, qualche rapina, molti soccorsi in montagna, la giudiziaria nei suoi diversi aspetti: si è trattato per me di un’esperienza molto umana, che mi ha confermato nella pratica la banale constatazione di quanto le cattive notizie facciano…notizia. E, nel mio piccolo, ho sempre cercato di raccontare vicende difficili con garbo privo di sensazionalismo per rispetto a quel grumo di dolore e talvolta di follia che avvolge la morte.
Con l’evidente constatazione, anche nella recente vicenda di questo Alessandro Impagnatiello che ha barbaramente ucciso la compagna Giulia Tramontano al settimo mese di gravidanza, che si supera ormai con troppa facilità la soglia che trasforma il racconto in un giornalismo cialtrone e inutilmente curioso e indagatore.
Raccontare le vicende di “nera” ci sta, ma vedere chi ci sguazza fa venire il voltastomaco per la ricerca voyeuristica del particolare macabro o dell’ inutile pettegolezzo. “Chi l’ha visto?” - trasmissione nata con buone intenzioni - è diventato un programma che troppo spesso scava nel sottobosco della “nera”.
Ha scritto anni fa il giornalista e scrittore Michele Serra: «Il sospetto, dunque, è che l'angosciosa percezione di un salto di qualità del male e della violenza sia dovuta soprattutto a una assai più diffusa conoscenza di crimini sempre avvenuti, ma solo oggi diventati materia prima quotidiana di un sistema mediatico cresciuto in maniera esponenziale. Ogni frammento di orrore viene ingigantito, ogni urlo di dolore amplificato, su ogni singola variazione attorno all'orrendo tema della violenza dell'uomo sull'uomo vengono allestiti fluviali dibattiti. L'esile scia di sangue che i cantastorie trascinavano per piazze e villaggi è diventata il mare di sangue che esonda dal video: ma è sempre lo stesso sangue, probabilmente anche la stessa dose pro-capite, solo con un rendimento "narrativo" moltiplicato per mille, per un milione, per un miliardo di volte».
Voler ispezionare gli orrori offre forse un aspetto consolatorio rispetto alla propria vita, ma esiste qualcosa di malato nel vero e proprio accanimento che tracima e trasforma - il delitto di Cogne fece scuola - in discussioni oziose, ricostruzioni avvilenti, mancato rispetto per le vittime. Fu
Intendiamoci: una cronaca asciutta, circostanziata ma rispettosa non è inutile in sé. Lo ricordava ieri sul Corriere Dacia Maraini: ”Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle”.
Già questa violenza maschile, diventata un fil rouge insanguinato quasi quotidiano, fa orrore e apre a riflessioni inquietanti su noi uomini e sulle donne che subiscono la loro violenza. Così vale l’appello accorato della Maraini: “Teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi”.

Agire sul Clima

Seguo con grande attenzione e da anni, prima per altro che fosse diventato così di moda, il dibattito sul cambiamento climatico. Già nel 2002 con l’Anno internazionale delle Montagne ponemmo in prima fila la questione dell’impatto, dimostratosi veritiero, dell’aumento delle temperature sulle Alpi e su tutte le montagne del mondo con conseguenze a breve, medio e lungo termine.
Il mondo scientifico - e mi sono convinto della tesi - è quasi all’unisono d’accordo sulle gravi responsabilità umane in questa faccenda per l’incidenza delle nostre attività sull’equilibrio del nostro pianeta. Ho letto le ragioni dei negazionisti, quelli ragionevoli, ma non mi hanno convinto.
Trovo, tuttavia, che il dialogo sia necessario e per questo mi ritrovo con quanto scritto sul Foglio da quello spirito bizzarro, pur nella schiera degli scettici sul cambia climatico, che è Giuliano Ferrara.
Così scrive: “Bisognerebbe stipulare un patto di civiltà fra i green washers (quelli del riscaldamento globale) e i green bashers (quelli di noi che dissentono e si oppongono). Ora che si va verso il caldo estivo ma nel fresco relativo e a sorpresa dei primi di giugno, ora che la siccità è in riflusso e sulle alluvioni e bombe d’acqua si riflette con minore intransigenza eziologica (le cause antiche e recenti, le vere responsabilità nella manutenzione di fiumi e bacini), è forse il momento di un piccolo accordo provinciale di distensione intelligente (il mondo è strano e troppo vasto).
Non fa specie per noi che si registrino aumenti delle temperature medie e i fenomeni conseguenti, che si diffonda un misurato allarme, che si prendano misure. Dovreste voi riconoscere che i modelli predittivi apocalittici sono fallibili, che il clima e il meteo sono luoghi di contraddizione conoscitiva, che il contributo della macchina umana al funzionamento e all’equilibrio vitale della macchina naturale è discutibile, c’è e non c’è, può essere in parte o largamente sopravvalutato”.
Mi sembra un modo civile di porre le questioni è così prosegue Ferrara: “Noi comprendiamo l’allarme specie tra i giovani, e non escludiamo affatto si diffonda tra le mode e le stupidaggini estinzioniste un’autentica vocazione a curare il pianeta, sebben spicchi una tendenza ideologica o addirittura religiosa a un eccesso di visione (chi desidera visioni, diceva Max Weber, vada al cinema). Voi dovreste riconoscere che molte pulsioni concorrono spesso a una festa dell’infatuazione horror intorno al clima, e non sempre in modo razionale, non sempre sulla scia di dati sperimentali certi indicati da un numero ingente di esperti e istituzioni scientifiche.
Dovreste piantarla di riferirvi a Trump come al principe dei negazionisti, e di farlo in modo polemico rilanciando una dialettica destra-sinistra o populismo contro democrazia che non c’entrano niente con l’argomento. Qui per esempio si negava quel che ci sembrava giusto negare da quando Trump, il bellimbusto, aveva politicamente i calzoni corti, anzi era in mutande e sonnecchiava nei dintorni per lui proibiti dell’establishment di New York. Noi cercheremo di temperare il malessere che suscitano i green washers, così potenti nelle grandi conglomerate del marketing industriale e finanziario, o nelle strutture dell’onu e dell’unione europea, e volentieri rinunciamo a considerare un attentato alla prosperità le riserve e alcune misure di deterrenza delle conseguenze del riscaldamento, ora che anche il climato-fanatico Macron ha chiesto un fermo agli eccessi delle politiche verdi intese come colpi all’industrialismo e allo sviluppo”.
Confesso come Ferrara non sia del tutto convincente, ma accomodante, malgrado il suo carattere non sempre accomodante: ”La spocchia è cattiva consigliera, per voi e per noi. Bisogna limitarla, se non si possa del tutto eliminarla. Vero che una grande maggioranza istituzionale la pensa come i più estremi tra i climatofanatici, ma la scienza, come la poesia, non è democratica, non si contano i voti, si valutano le idee e i fatti. Giulio Betti del celebrato centro meteo Lamma ha per esempio valorizzato, forte delle sue convinzioni meteo-ambientaliste anche estreme, ma sempre porte con garbato senso dell’equilibrio, uno studio sulle alluvioni in Romagna che smentisce la ricerca delle responsabilità dirette dell’uomo in rapporto al clima. Ha subito rischiato il processo ideologico. Dall’altra parte, se il professor Franco Prodi con il suo bell’ingegno, le sue prove o testimonianze di carattere scientifico, il suo incanto finto ingenuo e il suo scetticismo vigile, afferma cose in controtendenza, e conclude sulla “bufala” del riscaldamento globale ragionamenti articolati e seri, bisognerebbe evitare di considerarlo, lui e i suoi simili che non mancano e non sono mancati in tutta questa storia, come un mattocchio o un isolato o uno che sa ma il suo sapere non conta. Ancora uno sforzo, per favore, approfittiamo del calo di dieci gradi delle nostre temperature di inizio giugno, prima del Solleone”.
Il tono è garbato, ma val la pena di dire che - convinto come sono che bisogna agire sull’incidenza degli impatti umani sul clima - che certe guerre ideologiche finiscono per creare ritardi e le contromisure possono, anzi devono essere trovate fra tutti coloro che hanno il sale in zucca.

Generazioni a confronto

Sempre difficile capire quale possa essere l’equilibrio in politica fra il vecchio e il nuovo.
Una prima lettura riguarda la politica stessa e il fatto accertabile di come gli scenari di fronte ai quali la politica si trova mutino con un’impressionante rapidità. Ciò avviene con la sgradevole impressione di rincorrere gli eventi e i problemi, che trasformano la politica nella goffaggine di chi avanzi nella neve alta o cerchi di raggiungere il largo durante una mareggiata.
Eppure è così.
Ho visto a suo tempo cosa significhi il nuovo, diventando deputato a 28 anni nella X Legislatura (1987-1992). Ora vedo il vecchio, all’orizzonte dei 65 anni, impegnato come assessore nella XVI Legislatura regionale in Valle d’Aosta.
Non ho mai ritenuta intelligente - e non solo perché Cicero pro domo sua - la celebre rottamazione di renziana memoria. E anche certo nuovismo fine a sé stesso rischia di essere una posizione stucchevole se intesa come una sterile guerra fra generazioni.
Ha detto il Presidente Sergio Mattarella, grande vecchio che dimostra con i suoi graffi periodici come l’esperienza conti: “I giovani si allontanano e perdono fiducia perché la politica, spesso, si inaridisce. Perde il legame con i suoi fini oppure perde il coraggio di indicarli chiaramente. La politica smarrisce il suo senso se non è orientata a grandi obiettivi per la umanità, se non è orientata alla giustizia, alla pace, alla lotta contro le esclusioni e contro le diseguaglianze. La politica diventa poca cosa se non è sospinta dalla speranza di un mondo sempre migliore. Anzi, dal desiderio di realizzarlo. E di consegnarlo a chi verrà dopo, a chi è giovane, a chi deve ancora nascere. La politica, deve saper affrontare i problemi reali, ha bisogno di concretezza”.
In questa nostra società che invecchia e molto rapidamente per via del crollo demografico bisogna giocare sullo scacchiere della politica con tutte le pedine e dare rappresentatività a quante più espressioni possibili.
Chi oggi - com’è avvenuto in Francia - vorrebbe bloccare ogni ragionevole allungamento dei tempi del lavoro (e l’Italia lo ha fatto) sembra non cogliere la realtà di una possibilità di vita allungata quale quella di oggi e di domani. Questo ha come conseguenza - fatti salvi i lavori davvero usuranti - una logica possibilità di restare pienamente attivo nella società.
Un processo che andrebbe meglio regolamentato negli anni che precedono la pensione e che dovrebbe aumentare la possibilità di operare quel passaggio di competenze e di consegne senza il quale avere accumulato conoscenze e esperienze rischierebbe di essere null’altro che un vuoto a perdere.
Mi capita di pensarci e di riflettere come quanto fatto in politica serve per capire meccanismi, studiare mentalità, smontare e rimontare problemi, guardare al mondo e al proprio orto, conoscere cose e soprattutto persone, sentirsi spesso sotto esame, imparare punti di vista.
Un bagaglio prezioso che si vorrebbe lasciare, anche solo in piccoli pezzi, a chi comincia, guardandosi attorno e sapendo che sarà lui stesso a crearsi la sua strada, ma chi ne ha già percorse tante può avere una sua utilità.
Non è presunzione, perché so bene che il passato e la tradizione possono avere una loro utilità, pur dovendo fare i conti con tante cose che cambiano così in fretta da rendere molti aspetti d’improvviso obsoleti. Certe cose, come metodi, approcci, letture dell’animo umano, idee immarcescibili restano piantati come dolmen di pietra che segnano il cammino e tornano sempre utili come borse per gli attrezzi o come quei medicinali di base che teniamo in casa per un loro pronto uso.

La Z di zanzara

Odio le zanzare. Già mi infastidisce la parola: viene dal latino zinzāla(m), voce imitativa del ronzio. Per gli spagnoli il simpatico termine mosquito (usato anche in inglese), derivato da mosca, che i francesi hanno trasformato in moustique.
Le odio perché sono una loro preda considerata gustosa dopo la puntura e, quando giri in certi Paesi, non è il fastidio, ma persino la paura di qualche malattia. Zanzare “estere”, che ormai, come la celebre Tigre, sono arrivate anche da noi e ci sono serate indimenticabili per colpa loro.
Ricordava l’etologa Isabella Lattes Coifmann: “Con l’olfatto e i sensibili termorecettori la zanzara sente l’odore e il calore che emanano dal corpo umano. Sibilando vola e cerca il posticino su cui posarsi tra un follicolo pilifero e l’altro, là dove affiorano sotto la pelle i capillari sanguigni. Appena l’ha trovato il suo ronzio cessa di colpo e lei sfodera in silenzio tutto il suo sofisticato armamentario di ferri chirurgici”.
Prosegue tipo film horror: “C’è n’è quanto basta per incidere la pelle, iniettarvi una goccia di saliva anticoagulante, leggermente irritante, e aspirare il sangue attraverso una finissima cannula. Se è particolarmente ingorda è capace di succhiarne una quantità pari a tre o quattro volte il proprio peso”.
La volta peggiore per me è stata quando mi sono trovato, nei pressi del Natale, con quella che pensavo fosse una semplice congiuntivite ad un occhio. Mi visitò ad Aosta un amico oculista che si entusiasmo, osservando il mio occhio: “Che bello, una filaria!”. Trattasi di un parassita, chiamato appunto verme dell’occhio, che ho visto appallottolato nel mio occhio. Per farmelo togliere sono finito ad Ivrea e il Primario che me lo doveva togliere mi chiese se d’estate ero stato al lago di Viverone. Alla mia conferma mi spiego che il vettore era la zanzara di una specie probabilmente arrivata dall’Africa. Giorni dopo, eccomi in sala operatoria: anestesia locale, luci spente per evitare che il ventaccio si nasconda in fondo all’occhio che si accendono d’improvviso. Il medico ravana nel mio occhio e dopo poco urla: “Si è rotto!”. Dopo l’operazione mi spiega di avergli tolto la testa (era lungo una decina di centimetri), con denti tipo Alien e che quindi, essendo morto, verrà riassorbito dai tessuti. Piccola avventura che mi ha reso ancora più antipatiche le già antipatiche zanzare.
Leggo ora su Le Monde un articolo su di loro, che trovo divertente, che parte da una triste constatazione: “Les moustiques sont de sortie. Partout en France, les insectes voraces perturbent les premiers désirs de barbecue. C’est le moment qu’ont choisi les chercheurs de l’Institut polytechnique et université d’Etat de Virginie – connu sous le nom de Virginia Tech – pour nous annoncer une mauvaise nouvelle : la plupart des savons parfumés que nous utilisons dopent l’appétit des femelles pondeuses – puisque ce sont elles, et seulement elles, qui piquent”.
Poi la spiegazione: “Professeur assistant dans l’université américaine et cocoordinateur de l’étude, le Français Clément Vinauger explique le mécanisme, décrit dans la revue iScience du 10 mai : « Les femelles moustiques ont besoin de sang pour obtenir les protéines nécessaires à la production d’œufs. Mais les femelles, tout comme les mâles, ont aussi besoin de sucres provenant de plantes pour obtenir l’énergie nécessaire à leur métabolisme. Pour trouver ces ressources, ils utilisent des composés volatils émis par ces dernières. Mais ce qui nous différencie d’autres animaux, c’est que, chaque jour, nous employons des produits cosmétiques ou d’hygiène, comme les savons, et les appliquons sur notre peau. » Des produits destinés à flatter nos narines, exhalant souvent de douces senteurs végétales. « Du point de vue des moustiques, nous sommes donc une ressource qui sent à la fois comme un animal et une plante, poursuit le chercheur. Cependant, l’effet de l’ajout de ces composés émis par les plantes à notre odeur corporelle sur la réponse des moustiques n’avait jamais été testé»”.
Interessante, ma trovo più stimolanti i metodi per farle fuori con orrore - immagino - di certi animalisti trinariciuti, che immagino potrebbero pure difenderle, le maledette zanzare.

Il futuro del Casino de la Vallée

Ho avuto sino a poco tempo fa all’interno della Giunta regionale la delega sulle Partecipate ed è stato un impegno interessante per capire meglio meccanismi di funzionamento di società più o meno importanti legate direttamente o indirettamente alla Regione Valle d’Aosta con partecipazioni maggioritarie o minoritarie, a seconda dei casi. Una sorta di galassia piuttosto variegata, che costituisce un sistema consolidato, che Valle d’Aosta però sempre attualizzato secondo le necessità.
Esperienza utile, che è stata in parte facilitata da esperienze pregresse, che aveva l’ambizione di poter avere - attraverso una sorta di cruscotto di controllo - sempre una visione puntuale di quanto accadeva e di gestire i rapporti con le società interessate con tempestività nel delicato equilibrio fra la loro autonomia e le responsabilità del controllo analogo su quanto è pubblico, nel rapporto giustamente dialettico anche con la locale Sezione di controllo della Corte dei Conti.
Ho seguito tra gli altri le vicende del Casino de la Vallée, che conosco bene nelle sa storia iniziata nel lontano 1947 e che è stato per molti anni e lo potrà essere ancora utile fonte di finanziamento per le casse regionali e che ha avuto un ruolo importante come datore di lavoro per generazioni di valdostani. Un’attività per molto tempo redditizia che si è ritrovato a inizio Legislatura, dopo vicende varie, di fronte al passaggio delicatissimo del concordato per evitarne il fallimento in un clima assai complesso anche per questioni giudiziarie, che si sono chiuse - in tema di responsabilità di alcuni amministratori regionali per le scelte assunte in passato - con una sentenza positiva e rassicurante della Corte Costituzionale che ha riaffermato spazi di libertà nelle decisioni possibili del Consiglio Valle.
Ora, pur mantenendo buona memoria di certe manovre avvenute, la Casa da gioco vede all’orizzonte 2024 la chiusura del concordato e il ritorno a pieno ad una operatività sul mercato e questo sta avvenendo con risultato di bilancio positivo di cui sono lieto, perché hanno smentito tante Cassandre che si sono adoperate in questi anni in un clima spesso avvelenato, che ha rischiato di portare alla chiusura, com’era avvenuto per la Casa da gioco di Campione.
Tuttavia, le scelte da fare - ad esempio con il dilemma fra proseguire la gestione pubblica e ritornare ad una gestione privata (ma la concessione per il gioco sarebbe sempre della Regione) - obbligano ad approfondimenti rapidi e a decisioni tempestive per il bene dell’azienda e dei dipendenti, che hanno compartecipato in questi anni con senso di responsabilità al salvataggio di un’azienda che in troppi davano ormai per decotta.
Non è un passaggio facile e i tempi sono stretti e obbligano a strategie chiare e definite in un mercato del gioco da capire bene per i mutamenti avvenuti spesso con rapidità, sapendo che ci sono denari da spendere per migliorare le infrastrutture e che ci vorranno scelte innovative, specie per attirare nuova clientela e in particolare i giovani, che difficilmente possono trovare attrattivi giochi che hanno ormai una loro veneranda età. Lo si deve fare, tenendo conto del territorio dove la Casa da gioco opera (e dunque un rilancio della cittadina di Saint-Vincent), ricordando che il Casinò, anche per il suo peso occupazionale, è una risorsa per la Regione tutta intera e per questo bisogna operare le scelte politiche necessarie in un dibattito aperto che non abbia sempre e solo logiche elettoralistiche. Va fatto guardando al futuro e sgombrando il campo dalle solite voci e dai pettegolezzi che da sempre ammorbano la Casa da gioco. Quel che conta è avere idee chiare e seguire la strada che verrà tracciata con grande decisione.

Pensieri del 2 Giugno

La democrazia è un sistema complesso, costruito nel tempo e come tale ha dovuto mantenersi vivo, affrontando profondi cambiamenti. Alternative migliori non si sono manifestate e per questo bisogna difendere l’esistente e lavorare per migliorare le regole dello stare assieme.
Tutto si gioca su equilibri: equilibrio fra maggioranze e opposizioni frutto del voto popolare e equilibrio fra i diversi poteri di un ordinamento democratico che si bilanciano per non uscire dal seminato. Esistono in questi solco equilibri interni fra poteri centrali e democrazia locale e le organizzazioni politiche, motore della partecipazione dei cittadini, devono garantire regole di convivenza interne e fra di loro.
Un meccanismo delicato e lo vediamo anche in antiche democrazie, ben più mature e rodate di quella italiana, che appare molto spesso al limitare di crisi più o meno forti. Ognuno può su questo avere le opinioni più disparate e approfitto dell’odierna Festa della Repubblica del 2 giugno per provare a citare qualche punto.
La prima questione, da cui si evincono molte cose dette e non dette, è la fragilità stessa di questa Festa, che ricorda il referendum del 1946 - che già fu litigioso persino per il conteggio dei voti - fra Monarchia e Repubblica. Analogamente purtroppo alla Festa della Valle d’Aosta, che dovrebbe ricordare l’emanazione dello Statuto di autonomia speciale del 22 febbraio del 1948, mentre questa ricorrenza è del tutto priva di qualunque reale partecipazione popolare. Sono solo le ”autorità” a fare qualche cerimonia mordi e fuggi con discorsi di circostanza e corone di alloro. Brutto segno se si compara a quanto avviene in vecchie democrazie, che hanno date sentite e partecipate anche dai cittadini. Sarebbe bene tornare - come già venne previsto da una legge regionale - al 7 settembre, , data in cui si metteva assieme l’antico e cioè la presenza in Valle d’Aosta dei Savoia per le udienze in occasione di San Grato, Patrono della diocesi, con il Decreto luogotenenziale del 1945, che è il seme da cui fruttò lo Statuto.
Seconda considerazione: possiamo riderci sopra oppure rimpiangere inutilmente epoche passate, ma resta indubbio e scolpito nei curricula che si assiste in Italia ad un lento degrado della qualità intellettuale e culturale della classe politica. Saranno pure i sistemi elettorali inefficaci, che nel caso del Parlamento privano ì cittadini di scelte reali, che fanno ormai a monte i partiti in vece loro. Ma basta seguire un dibattito nelle assemblee elettive vicine e lontane per chiedersi che cosa sia successo e questo apre uno squarcio sul perché tante persone capaci e meritevoli sfuggano e non si impegnino più nell’agone politico.
Infine vorrei segnalare la logica crescente dei leader politici in Italia di sfuggire al confronto diretto con i giornalisti, preferendo messaggi via Social diretti rivolti ai propri fans e questo crea un’evidente comfort zone per chi ha cariche pubbliche, sfuggendo di fatto a domande scomode ma utili.
Il male accomuna Giorgia Meloni, che spiega le sue ragioni in filmatini e il più noto è la camminata a Palazzo Chigi con culmine nella sala del Consiglio dei Ministri con i Ministri seduti come scolaretti, con Elly Schlein nuova leader del PD, che dopo il flop alle amministrative ha usato Instagram per rassicurare i “suoi”. La democrazia, invece, dovrebbe essere altro.
Lo ricorda bene Aldo Grasso sul Corriere: “Quando Silvio Berlusconi inviava le cassette registrate dei suoi interventi ai tg, lo faceva perché non voleva essere «tagliato», reinterpretato. Sosteneva che attraverso l’immagine tv il suo messaggio arrivava «forte e chiaro», senza manipolazioni. Adesso c’è la diretta Instagram. Per questo oggi molti politici, da Giorgia Meloni a Elly Schlein, preferiscono rivolgersi ai cittadini dai propri account personali, sia per sottrarsi alle domande dei giornalisti sia per evitare le interpretazioni dei medesimi. Possono entrare in gioco anche ragioni psicologiche: non tutti (plurale sovraesteso) hanno una forza carismatica per affrontare una conferenza stampa. Stiamo assistendo a un fenomeno epocale che ha già largamente investito le logiche del mercato e ora sta trasformando quelle del mondo della comunicazione. C’è stato un tempo in cui il passaggio delle dichiarazioni di un politico ai cittadini dipendeva in larga parte dai giornalisti”.
E aggiunge in chiusura: “Oggi la dinamica rischia di rovesciarsi: per ragioni tecnologiche e generazionali, il politico preferisce muoversi in un ambiente virtuale in cui la dinamica del potere fra politica e media è sbilanciata a suo favore. I social network, come ben sappiamo, permettono a chiunque di comunicare ai follower la propria opinione: la «disintermediazione digitale» ha accorciato le distanze tra gli attori coinvolti, spesso a scapito dei ruoli. Quindi la comunicazione viaggia su binari più sicuri? La proliferazione di informazioni online genera smarrimento e non tutti hanno la stessa capacità di comprensione del testo. Il politico si sente più «protetto» ma il cittadino è meno tutelato e si rischia anche di esacerbare un digital divide già esistente nelle diverse classi sociali”.
Giuste considerazioni.

I tempi rapidi della Réunification

Malgrado rari scetticismi sottotraccia e qualche silente malpancista d’ordinanza, la prima manifestazione della Réunification ha funzionato con una grande e condiviso momento di incontro. Credo che a tutti il canto conclusivo di Montagnes Valdôtaines, inno della Valle, abbia fatto risalire alla memoria certi momenti del passato che mostrano, anche in termini emotivi e sentimentali, come lo stare insieme abbia un significato profondo.
Ora con l’approssimarsi dell’estate, che distrae giustamente dalle quotidiane preoccupazioni e permette di tirare il fiato, il rischio è che non si batta il ferro sinché è caldo. Lo spazio politico autonomista esiste e bisogna che sia presidiato in modo forte, perché questo è il solo modo per evitare che la Valle d’Aosta diventi terra di conquista di appetiti politici vari.
Il pluralismo - intendiamoci bene - è un valore in democrazia, ma lo è anche e a maggior ragione il mantenimento di quella caratteristica di originalità identitaria della Valle d’Aosta senza la quale verrebbero meno le ragioni profonde che consentono l’esistenza di una Regione autonoma piccola come la nostra.
Chi dà per acquisito per sempre questo diritto non conosce a fondo i rischi, ricorrenti nel tempo, delle azioni dei molti nemici sempre in opera contro questa nostra eccezione valdostana, costituita anche da una componente politica originale nel panorama italiano.
Ecco perché perdere tempo nel corso del processo di accorpamento degli autonomisti sarebbe sbagliato e ci sono passaggi in cui si deve premere sull’acceleratore. La parte finale del documento votato il 18 maggio a Saint-Vincent recita: “Profitant de l’absence de périodes électorales, les mouvements se réuniront pour partager des règles pour reconstituer un dialogue commun, où les différences soient le potentiel pour permettre à la Vallée d’Aoste d’aborder son avenir en tant que protagoniste.
Les intervenants invitent enfin les Mouvements à concrétiser, au plus tôt, ce parcours”.
Avrei preferito mettere una data precisa per mia indole personale, perché una data sul calendario obbliga sempre a rispettare i tempi. Tuttavia quel “au plus tôt” mi pare che sia comunque un impegno forte e su cui lavorare.
Direi in questo senso che sarebbe bene serrare le fila e lavorare su alcuni filoni. Sarebbe interessante avere anzitutto un momento festivo e chi ha vissuto il clima caldo e coinvolgente dei ”Rendez-vous valdôtains” sa a che cosa mi riferisco. Poi bisogna lavorare sullo Statuto del soggetto politico unificante per una casa comune accogliente e non può che essere sotto vessillo dell’Union Valdôtaine per evidenti ragioni storiche. Ma nel frattempo, affinché non sia un prodotto di laboratorio, bisogna scegliere i temi cardine di un programma politico e non solo nella
pur legittima logica elettoralistica. Per incidere ci vogliono - accanto al ruolo attuale nel governo della Valle - proposte serie di prospettiva sulle diverse necessità e urgenze che investiranno la nostra comunità per alimentare le azioni politiche e amministrative necessarie nel futuro.
Bisogna metterci cuore e intelligenze in questa fase costituente, facendo tesoro del passato senza passare il tempo a guardare nello specchietto retrovisore, ma guardando avanti alle molte cose da fare lungo una strada davanti a noi che potrà essere impervia e che tuttavia va percorsa con reciproca fiducia. Lo ha detto bene un passaggio del documento finale che ho già citato: ”Un parcours qui ne signifie pas effacer les années récentes, où la passion politique a porté à une fragmentation qui a profondément marqué les émotions et les actions de plusieurs Valdôtains : mais le moment est venu pour relancer une forte entente entre des personnes qui partagent des idéaux liés à l’autogouvernement, à l’importance du territoire, à la responsabilité du futur de la Vallée d’Aoste”.
Ma non c’è tempo da perdere per mantenere un ruolo decisivo nella politica valdostana nel mare procelloso dei cambiamenti.

Bermuda e cravatte

Guardatevi attorno e vi accorgete di come cambi nel tempo il modo di vestirsi e non per sola imposizione della moda, che pure spinge molto a incanalare le tendenze.
Fa sorridere pensare alla considerazione sul nostro vestirci di Arthur Schopenhauer: “Mentre tutti gli animali, presentandosi nella forma, nel rivestimento e nel colore naturali, offrono una vista naturale piacevole ed estetica, l'uomo con il suo rivestimento multiforme, spesso assai bizzarro e stravagante, per di più anche spesso misero e straccione, fa tra loro la figura di una caricatura, una figura che non si adatta alla totalità e che non vi appartiene, in quanto non è opera, come tutti gli altri rivestimenti, della natura, bensì di un sarto, e così rappresenta un'impertinente interruzione nell'armonica totalità dell'universo”.
Insomma, una specie di invito a girare nudi, che non mi pare del tutto proponibile. Per cui rassegniamoci a vestire, seguendo i tempi. Oggi vorrei proporre due esempi concreti del tempo che passa con certi cambiamenti.
Se fosse per lui, mio figlio piccolo (anni 12, si fa per dire…) girerebbe ormai tutto l’anno in - come si diceva una volta - braghe corte.
Non mi stupisco. In questi anni raggiungo al mattino il mio ufficio ad Aosta in contemporanea con l’arrivo per le strade del centro dei ragazzi in cammino verso le scuole della città. Un flusso che mi mette di buonumore a vedere insieme tutta questa gioventù in movimento e i loro look, spesso molto molto informali, prevedono per i maschietti- persino in stagioni freddine - il pantalone corto.
Immagino che sia un segno di libertà e questo è davvero singolare. Certe bermuda, tuttavia, fanno impressione. Ricordo tra l’altro come questo loro nome derivi dalla loro popolarità nell'arcipelago britannico delle Bermuda, dove viene indossato non soltanto come capo casual, ma anche in occasioni più formali, spesso abbinato anche a giacca e cravatta.
Noi babyboomer nella nostra giovinezza non le avremmo mai messe a scuola o in occasioni formali per almeno due ragioni. Certi professori del passato non avrebbero gradito certi modi di vestire (e anche molte ragazze non scherzano, trucchi e pettinature comprese). In secondo luogo da bambini, con calzettoni alti, eravamo costretti da bambini - ho delle foto della mia prima Comunione che lo testimoniano - a mettere i pantaloni corti “all’inglese” con un quale certo imbarazzo.
Confesso che ormai, in luoghi caldi, senza ricordare più certi traumi, porto solo pantaloni corti e la considero una mia scelta di costume non derogabile. Per cui, in fondo, ne capisco anche l’uso più diffuso anche alle nostre latitudini.
E cosa dire invece della cravatta? Bel problema: per ora mi pare che resista in certi luoghi istituzionali. Ma non so quanto durerà, perché anche in questo caso il suo uso sta cambiando e anche certi leader mondiali in certi momenti istituzionali se ne privano, rompendo una assodata tradizione.
Fa sorridere ed è pure istruttivo un passaggio di Paolo Cohelo:
“Vedi che cosa ho intorno al collo?
– Una cravatta.
– Giusto. La tua risposta è logica, coerente per una persona assolutamente normale: una cravatta! Un matto, però, direbbe che porto intorno al collo un pezzo di stoffa colorata, ridicolo, inutile, annodato in maniera complicata, che rende difficili i movimenti della testa e richiede uno sforzo maggiore per far entrare l’aria nei polmoni. Se dovessi distrarmi mentre mi trovo vicino ad un ventilatore, potrei morire strangolato da questo pezzo di stoffa.
– Se un matto mi domandasse a cosa serve una cravatta, dovrei rispondere: assolutamente a niente. Non può dirsi utile neanche per abbellirsi, perché oggigiorno è divenuta addirittura il simbolo della schiavitù, del potere, del distacco. La sua unica utilità si manifesta al ritorno a casa, quando una persona può togliersela, provando la sensazione di essersi liberata da qualcosa che non sa neanche che cosa sia. Ma quella sensazione di sollievo giustifica l’esistenza della cravatta? No”.
Appunto, forse un giorno sarà così definitivamente.

Baciarsi…sull’altalena

“Internazionale” offre un ampio spettro dei giornali del mondo e, per fortuna rispetto alla terribile serietà dei temi che riguardano la nostra umanità, emergono come chicche gioiose degli articoli che interessano e un po’, per gli argomenti trattati. sorprendono se non divertono.
Per cominciare una dotta dissertazione di Javier Moscoso sull’altalena, che va ben al di là della nostra infanzia, quando questo ondeggiare mi piaceva moltissimo.
Così esordisce l’articolo: ”Prima di arrivare in tutti i parchi giochi urbani del novecento, l’altalena è stata per secoli uno strumento rituale di guarigione, castigo e trasformazione. Attraverso i suoi movimenti ripetitivi e frastornanti, è stata usata per celebrare divinità ed entità leggendarie, allontanare il maligno, placare impulsi suicidi, curare malattie mentali, affermare il proprio dominio sessuale e tormentare chi era accusato di pratiche occulte. La sua funzione più profonda, però, è sempre stata quella della trasformazione: sotto l’incantesimo del suo moto oscillatorio, l’altalena ci spinge a mettere in discussione il mondo che conosciamo, con le sue gerarchie e i suoi ritmi prestabiliti. Andare sull’altalena non vuol dire semplicemente giocare, ma aprire spazi di disorientamento con la trasgressione.
Cosa significa raccontare la storia di questo oggetto? L’altalena ci rivela come una cosa nata per disorientare sia stata strumentalizzata per tutto l’arco della cultura umana, apparendo in culture e territori diversi. Ma non è solo la storia di un oggetto. È anche quella di tante storie non raccontate, di corpi in movimento che cercano di svelare gesti dimenticati, trascurati o nascosti. La storia umana non è fatta soltanto di parole e oggetti. L’altalena ci permette di cominciare a raccontare la lunga vicenda culturale di un dondolio che attraversa il tempo e lo spazio.
Già a un primo sguardo, l’altalena spunta nei luoghi più inaspettati. Compare nelle feste dell’antica Grecia e nelle pitture rupestri realizzate nell’India occidentale durante il quinto secolo. È illustrata nelle pergamene cinesi della dinastia Song, che risalgono all’undicesimo e al dodicesimo secolo. È il soggetto di dipinti indostani e punjabi come Lady on a swing in the monsoon (1750-75), in cui una donna si dondola gioiosa con gli abiti che svolazzano mentre in lontananza si addensano nubi oscure. È citata perfino nella storia delle origini della festa del nowruz, il capodanno persiano: si racconta che le persone si dondolassero sull’altalena per imitare il leggendario Sash Jamšīd che guidava il suo carro nel cielo. È presente nella vita della dinastia tailandese Chakri del diciottesimo secolo, perché re Rama I ne fece costruire una gigantesca. E si ritrova un po’ ovunque nelle pagine della letteratura e della filosofia occidentale, da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche (1883-85) a Il ramo d’oro di James George Frazer (1890), dai Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud (1905) a Homo ludens di Johan Huizinga (1938)”.
Poi lo straordinario storitelling che colpisce proponendo un viaggio nei millenni e nei costumi di popoli diversissimi fra loro con un’osservazione finale: ”L’altalena, un capitolo dimenticato nella storia dell’umanità, è intrecciata di mitologie e processi rituali. Che si parli di Grecia classica, Persia antica, Cina preimperiale o antico Egitto, è permeata dalla presenza di tratti comuni e miti condivisi: ebbrezza, amore, omicidio, suicidio e ambizione ruotano tutti intorno a un impulso irrefrenabile, come quello di Erigone che s’impicca dopo aver trovato la salma del padre. D’altro canto, queste storie e leggende non sarebbero nulla senza il processo sociale su cui s’innestano, senza le forme collettive e ritualizzate che permettono di raccontare e tramandare storie simili tra loro. Attraverso l’altalena e l’atto del dondolarsi riusciamo a vedere in quali forme la cultura comune e le norme sociali si proiettano nel corpo, ritualisticamente e impercettibilmente.
Perché, dunque, andiamo sull’altalena? Lo strumento che popola i nostri parchi giochi è arrivato fino a noi, ma le sue origini ci sfuggono. La sopravvivenza dell’atto del dondolarsi come gesto comune non può essere spiegata facendo riferimento a una storia ancestrale da cui banalmente deriverebbe ogni nuovo movimento. Le origini della nostra predilezione per questo gesto non sono annotate su nessun registro. Si perdono tra le nebbie della leggenda, molto prima che qualcuno si preoccupasse di disporre gli eventi su una scala cronologica”.
Nelle pagine seguenti spunta un altrettanto singolare articolo di Michael Le Page di New Scientist sul bacio o meglio con questa distinzione: ”Gli scienziati distinguono tra due tipi di baci: quello amichevole-familiare e quello romantico-sessuale. Il primo tipo, scrive Science, è diffuso tra gli esseri umani ovunque e in qualsiasi epoca. Il secondo, invece, non è universale ed è presente soprattutto nelle società stratificate“
Poi le spiegazioni: ”Una nuova ricerca basata sui testi antichi, pubblicata su Science, sostiene che l’abitudine di baciarsi appassionatamente era già diffusa almeno 4.500 anni fa in Mesopotamia e in Egitto.
La nascita dei baci legati alla sfera romantica e sessuale è al centro di un animato dibattito. Secondo alcuni esperti, le prove più antiche risalgono a dei testi in sanscrito scritti nella penisola indiana circa 3.500 anni fa. Da lì i baci si sarebbero poi diffusi nel resto del mondo, favoriti anche dall’espansione dell’impero di Alessandro Magno”.
Più avanti: “Nuove prove emerse in Mesopotamia e in Egitto, però, suggeriscono che il bacio romantico-sessuale nacque in vari posti e non si diffuse all’improvviso da uno solo al resto del mondo, spiega Troels Pank Arbøll dell’università di Copenaghen, in Danimarca: “L’abitudine di baciarsi esisteva in un’area molto più vasta di quanto si pensasse finora”.
Le poche persone capaci di leggere la scrittura cuneiforme, usata da varie antiche civiltà, lo sapevano da tempo, ma solo loro, aggiunge Arbøll. “Neanche la comunità scientifica ne era a conoscenza, perché le prove non erano state divulgate”. Così lui e la moglie, la biologa Sophie Lund Rasmussen dell’università di Oxford, nel Regno Unito, hanno deciso di pubblicare un articolo per diffondere le prove finora ignorate.
Negli scritti mesopotamici i riferimenti ai baci sono scarsi, ma da quei pochi che ci sono si evince che baciarsi era considerato normale all’interno delle relazioni intime, dice Arbøll”.
E ancora: ”Tuttavia, da uno studio condotto nel 2015 da William Jankowiak e dai suoi colleghi dell’università del Nevada a Las Vegas, negli Stati Uniti, non sono emerse evidenze di baci tra amanti nelle società di cacciatori-raccoglitori.
“Secondo me furono inventati o scoperti dalle élite delle società complesse”, afferma Jankowiak, “che potevano permettersi di perseguire il piacere e di trasformare il sesso in un incontro erotico. Lo studioso aggiunge che i baci sono più diffusi nelle regioni fredde, forse perché il corpo è coperto da vestiti e la faccia è l’unica parte che si può toccare”.
Altalena e baci: in tutte le cose, come nei nostri comportamenti, è doveroso scavare, mettendo assieme puzzle estremamente complessi e speriamo veritieri.

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